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Le rose di Hilde a ‘Vigna Petrussa’

Come passa veloce il tempo…

Mi sembra ancora di sentire la voce di Hilde Petrussa mentre, orgogliosa nel mostrarmi le rose in testa ai filari delle sue vigne, mi diceva: “Hai visto le mie rose come sono belle?” Nonostante sia passato più di un mese dal nostro incontro a Prepotto, se chiudo gli occhi, il ricordo di quei colori è ancora vivo nella mia mente.

Un tempo i contadini le piantavano in testa ai filari perché soggette alle stesse malattie della vite, l’oidio e la peronospora; l’attacco alle rose però avveniva sempre in anticipo, preannunciando così l’imminente pericolo ai viticoltori che agivano con i trattamenti a base di zolfo.

Oggi la loro funzione più che altro è quella di abbellire i vigneti; a me però piace ancora una volta ricordare le belle tradizioni contadine dei tempi passati apprezzando chi ne da continuità.

Ho voluto introdurvi Hilde Petrussa così, con le sue rose…

Una donna del vino che si è tuffata con passione ed entusiasmo nella conduzione della piccola azienda viticola di famiglia ubicata ad Albana, località del Comune di Prepotto nei Colli Orientali del Friuli.  

Figlia di agricoltori, ha vissuto per trent’anni fra Conegliano e Portogruaro lavorando nell’amministrazione di diverse scuole. Una volta in pensione si è dedicata alla risistemazione delle sue vigne, privilegiando le varietà autoctone e impegnandosi in una conduzione rigorosa del vigneto: guyot monolaterale nei nuovi impianti, inerbimento, basse rese per ettaro e raccolta manuale delle uve, che le hanno permesso di ottenere maggiori concentrazioni aromatiche e strutturali del vino.

Ciao Hilde, a te la parola…

  • Mi descrivi la terra su cui si trovano le tue vigne?

Ciao Cinzia, la vallata in cui si trova la mia proprietà, fra lo Judrio e le colline, è protetta dai venti ed è in posizione solatia, con un microclima ed un terreno di marna eocenica (localmente detta ponka) ideali per la coltivazione della vite.

  • Quali sono i vini a cui sei maggiormente legata?

Come avrai notato ho avuto un’attenzione particolare per lo Schioppettino di Prepotto, vino tipico del mio comune. Sono stata cofondatrice dell’Associazione Produttori Schioppettino di Prepotto assieme ad altri e prima presidente dell’associazione.

Durante i 5 anni del mio mandato, con l’aiuto di tecnici in campagna e di enologi, abbiano concordato un disciplinare di produzione e ho avuto la soddisfazione di ottenere la sottozona per questo vitigno.

Altro vino a cui sono particolarmente affezionata è il Bianco “Richenza”, cuvèe ottenuto da uve provenienti da vitigni autoctoni parzialmente appassite e fermentate in barriques di rovere francese. Produco inoltre Friulano, Sauvignon, Cabernet Franc e Refosco dal peduncolo rosso.

  • Sei una donna del vino. Qual è la tua esperienza in questo mondo?

Anche se donna in un mondo ancora molto maschile, sono riuscita a superare incomprensioni, diffidenza e difficoltà. Credo che la cura maniacale per il vigneto e il mio impegno siano stati determinanti per i traguardi che ho raggiunto. Con un’espressione azzardata direi che ho cercato di mettere “il territorio nella bottiglia”.  

Ho provato inoltre grande soddisfazione quando ho ottenuto la Gran Medaglia d’Oro alla selezione del Sindaco con il Picolit 2005. Era la prima volta che entravo in Campidoglio per ricevere l’attestato dalle mani del Ministro dell’Agricoltura.

Petrussa

Hilde Petrussa

 




Il Grignolino, un vino rosso garbato

Non conoscevo il Grignolino, intendo bene, come piace a me, sul ‘campo’. Non mi ritengo un’esperta, come dico spesso sono solo una donna che ama il vino e che vuole conoscerlo attraverso tutti gli elementi che lo compongono.

Il vino per me è l’espressione dell’esperienza dell’uomo applicata al vitigno, al territorio e al clima, quindi mi chiedo – come è possibile dare un giudizio completo senza conoscere ciascun elemento che contribuisce a determinare le sue caratteristiche? – Certo, con l’assaggio è possibile coglierne i difetti o i pregi, ma la cosa si ferma li.  

Proprio per questo, pochi giorni fa, quando un amico mi ha chiesto cosa pensassi di un vino, mi è venuto spontaneo rispondergli… – sai, posso dirti che mi piace o non mi piace, ma un vino, finché non l’ho conosciuto nella sua pienezza, mi passa solo a metà. E’ come conoscere una persona leggendo di lei, ma senza averla incontrata… non si avrà mai la percezione di ciò che è veramente

Ho fatto questa premessa per farvi capire come ‘amo vivere il vino’, ma soprattutto per farvi capire l’entusiasmo con cui ho colto l’invito di Maurizio Gily e Monica Pisciella per il #grignolinodigitour. Detto questo, pronti via… si parte!

Quando inizio un viaggio, breve o lungo che sia, entro quasi in un’altra dimensione, giuro, non sto scherzando! Entro come in simbiosi con le terre che visito.

Ora sto pensando che… ma quanto sono belli i paesaggi vitivinicoli! In questa stagione poi, con le tante sfumature dei colori che variano dal verde al giallo e al rosso… una vera meraviglia!

Lo sapevate che i paesaggi vitivinicoli delle Langhe-Roero e Monferrato sono candidati a diventare Patrimonio Mondiale dell’Unesco? Ebbene si, e con merito!

Il #GrignolinoDigiTour si è svolto Domenica 17 Novembre.

Insieme agli amici dell’Officina Enoica siamo partiti da Milano puntando in direzione della Rocca di Rosignano Monferrato, una balconata che vi consiglio di visitare per la sua vista mozzafiato.

Ad aspettarci Maurizio Gily, che, subito dopo i saluti di rito, si è accertato sull’altezza dei miei tacchi; l’ultima volta che ci siamo visti a Gavi ne avevo un paio stratosferici, errore che stavolta non ho ripetuto. 😉

Una passeggiata a piedi per conoscere un territorio è il modo migliore per viverlo. E’ così che è iniziato il nostro tour nella terra del Grignolino: un percorso tra i ‘i bric e foss’, le dolci colline del Monferrato Casalese.

Di tanto in tanto perdevo di vista il gruppo a causa delle mie continue soste per fotografare ogni angolo che colpiva il mio sguardo.

La vista sui vigneti, gli scorci caratteristici dalle belle case in pietra da Cantoni, la pietra arenaria tipica di questi luoghi, fino al belvedere, o meglio, ‘An sal Sass’, il sasso su cui si erge il nucleo originario del paese.

Arrivati in comune abbiamo trovato ad aspettarci i gentili rappresentanti delle amministrazioni di Rosignano Monferrato, Cella Monte e San Giorgio. Oltre a darci il benvenuto ci hanno esposto il loro progetto per la promozione del territorio rivolto in particolar  modo ai comunicatori digitali.

Non potevano mancare un caffè e i famosi Krumiri Portinaro, una tipicità del Monferrato che risale al 1878, anno in cui morì Vittorio Emanuele II. A lui sono stati dedicati ispirandosi alla forma tipica dei suoi ‘baffi a manubrio’.

La tappa successiva è stata la visita all’Ecomuseo e al suo infernot situati a Cella Monte, comune caratteristico per le costruzioni a vista in pietra da Cantoni.

Indovinate li chi ho incontrato? Una donna col cappello, o meglio, una bella ‘Monferrina’! Questo nome ha origine da un’antica ballata del Monferrato la cui nascita sembra risalire alla storia di una giovane piemontese, Maria Catlina, corteggiata dal suo innamorato con questa danza.

Gli infernot sono nicchie sotterranee scavate nella pietra da Cantoni. Situati sotto le abitazioni private, sono senza luce ne aerazione diretta, con clima e umidità costanti. Ambienti, che nella storia della viticoltura locale, hanno trovato luogo ideale per la conservazione del vino.

Un’architettura sotterranea nata dalla sapienza contadina, che ne ha fatto oggi un’espressione della tradizione rurale di questo territorio.

Arrivata l’ora di pranzo abbiamo fatto tappa al ‘Relais I Castagnoni, una dimora d’epoca del 1742, un tempo convento religioso. Qui abbiamo degustato i piatti tipici della tradizione monferrina a base di tartufo bianco.

Maurizio Gily, dopo una degustazione alla cieca tra dodici assaggi di Grignolino, ci ha raccontato la storia e le caratteristiche di questo vino tipico del Monferrato Casalese, un vino ancora ai più poco conosciuto.

L’incontro e l’ascolto dei produttori, poi, ha completato il quadro. Con loro ho avuto modo di approfondire, di degustare, e di capire meglio questo vino come è giusto che sia.

Il Grignolino, un vino dal colore rubino chiaro, come più volte sottolineato da Maurizio, non un vino rosato ma un vino rosso vinificato con macerazione sulle bucce. Un vino molto sensibile al territorio d’origine da cui acquisisce i caratteri peculiari.

Definito da Luigi Veronelli come anarchico e testa balorda, per la personalità indipendente e quasi ribelle, da Mario Soldati, come il più delicato tra tutti i vini piemontesi.

Lo sto bevendo ora, mentre scrivo, dopo averlo conosciuto nel luogo in cui nasce, dopo aver parlato con chi lo produce. Non amo ricamare troppo sui vini, per questo motivo lo descriverò con poche parole: ‘Il Grignolino, un vino rosso garbato’.

Bisogna andare dal vino senza aspettare che sia il vino a venire da noi” 

Filiberto Lodi – Giornalista

L’etimologia del termine Grignolino sembra risalire al termine medievale ‘berbexinus’, un vino di uve berbexine considerato pregiato. (fonte Maurizio Gily)




Lo sapevate che il Panettone è nato da una storia d’amore?

Ebbene sì, il dolce natalizio tipico di Milano è nato da una storia d’amore, per lo meno così narrano le leggende. Un dolce che adoro, e non solo a Natale…

Ieri sera al Ristorante Il Fauno di Cesano Maderno, il protagonista è stato proprio il Panettone.

Insieme a Franco Cappello della Pasticceria Elisa di Seveso, si è parlato dei suoi ingredienti, delle sue tecniche di preparazione, e della sua storia.

Detto questo, lo sapevate che il Panettone è nato da una storia d’amore?

Ebbene si! Ora vi racconto… 

Si narra che Ugo degli Antellari, il nobile falconiere di Ludovico il Moro, fosse innamorato di Adalgisa, la bella figlia di Toni, un fornaio di Milano.

Un amore vissuto in segreto, osteggiato dalla famiglia nobile di lui, che non vedeva di buon occhio la ragazza, a causa delle umili origini.

Adalgisa, tra l’altro, dovendo aiutare il padre in bottega per l’assenza del garzone malato, era spesso troppo stanca per incontrarsi con il suo innamorato.

Per ovviare a ciò, Ugo, indossati abiti umili, si presentò dal padre fingendosi un garzone in cerca di lavoro. Le cose però continuavano a non andare bene: una nuova bottega aveva aperto a poca distanza causando una perdita di clienti.

Fu allora che Ugo capì che, per aumentare le vendite, la qualità del pane andava migliorata. Cedette di nascosto due falchi della corte, e con il ricavato comprò del burro introducendolo nell’impasto. Fu un successo!

Non contento, sotto le feste di Natale, decise di aggiungere all’impasto anche delle uova, dell’uvetta sultanina e dei pezzi di cedro candito. Il risultato fu uno specialissimo “pan del Toni” da cui ebbe origine il nome Panettone.

Anche se ormai viene proposto in molte varianti, io amo quello classico, quello fatto seguendo la ricetta tradizionale di un tempo.




Lo sapevate che i cachi…

Da ragazzina vivevo in una  casa con molti alberi da frutta. Un giorno mio padre, dovendo ampliare un’autorimessa, era in procinto di sacrificarne uno: un albero di cachi.

Mi piacevano tantissimo! Ricordo che li tiravamo giù dall’albero a Novembre, per poi farli maturare lentamente adagiandoli su lunghe assi di legno.

Nel mangiarli cercavo i noccioli che poi riponevo accuratamente da parte. Ero ansiosa di farmeli aprire da mio padre per vedere la forma della piccola posata che abitualmente trovavo. Se devo dirla tutta… questa cosa la faccio ancora! 😉

Ebbene direte, come finì la storia… l’albero poi è stato sacrificato?

Mio padre trovò il modo di non farlo rendendomi, come potrete immaginare, molto felice! La costruzione venne ampliata, ma con un albero di cachi che spuntava dal tetto. Ebbene si! Mio padre era un grande! 🙂

Oltre a farvi partecipi di un mio ricordo d’infanzia, lo sapevate che i cachi…

  • I cachi sono originari della Cina e del Giappone. Sono giunti in Europa sono alla fine del XIX secolo.
  • Sono un’eccellente fonte di beta-carotene, di vitamina C e di potassio.
  • Sono ricchi di zuccheri, quindi una buona fonte di energia. Apportano  circa 60 Kcal per ogni 100 grammi.
  • I cachi sono un frutto biologico in quanto la sua pianta non ha bisogno di trattamenti antiparassitari.
  • La parola cachi indica il frutto sia al plurale che al singolare. Comunque sia, anche se erroneamente, nel gergo comune è ormai consuetudine utilizzare la parola caco per indicare il frutto al singolare.

A proposito, i cachi vaniglia o cachi mela, dalla polpa assai più soda, sono anch’essi buoni, ma di una varietà diversa.


Fonte: ‘Cibi che fanno bene, cibi che fanno male’  – Tom Sanders docente di nutrizione e dietetica King’s College University of London




Il Gulash ungherese

di Agostino Zampieri

Ciao Cinzietta, ho pensato di mandarti una ricetta che mi ricordasse le mie origini venete molto vicine alle tue, visto che i miei genitori sono della zona di Oderzo, a Treviso. Poi, pensandoci bene, ho preferito inviarti la ricetta di un piatto le cui atmosfere mi ricordano un viaggio che ho fatto recentemente a Budapest.

Budapest è una città bellissima divisa in due dal Danubio, ‘Buda e Pest’. Una città ricca di storia, di ponti suggestivi, di  magnifici palazzi, e di acque termali.

Un popolo dalle grande storia, anche in cucina…

Budapest

Budapest

Ti parlerò del Gulash, e più precisamente del Gulash ungherese, visto che ne esistono un’infinità di varianti. Nonostante sia una ricetta oramai internazionale, i risultati finali sono molto differenti tra loro. Tra l’altro negli ingredienti c’è anche il vino rosso che piace a te, e questo è un valore aggiunto non da poco.

Questo piatto tipico di Budapest, pieno di profumi e piccante al punto giusto, lo si trova un po’ ovunque, come la paprika che è il suo ingrediente base.  Tra i ricordi, le fotografie, e i souvenir di questa splendida città, ho anche una bottiglia di Tokaji Szamorodni Szraz (secco) che attende l’occasione giusta per essere aperta…

 

Ingredienti:

 

Per il brodo vegetale da preparare in anticipo:

2 cipolle medie, 2 patate, 2 carote, 2 coste di sedano in 2 litri di acqua

 

Per il Gulash: 

500 gr polpa di manzo a tocchetti (meglio tagli anteriori)

3 cipolle piccole

4 patate medie

½ bicchiere di vino rosso corposo

200 gr di polpa di pomodoro

1 cucchiaio di paprika dolce

½ cucchiaio di paprika piccante (a piacimento)

4 cucchiai di olio

50 gr di burro

1 cucchiaio di farina

Sale e pepe q.b.

 

Preparazione:

Tagliare le cipolle a cubettini sottili e soffriggerle delicatamente in olio e burro. Appena prendono colore aggiungere la carne infarinata a tocchetti mescolando continuamente fino a che prende colore. Aggiungere sale e pepe facendo sfumare il vino, quindi unire la paprika, la polpa di pomodoro, e l’eventuale farina rimasta. Continuare a mescolare aggiungendo al bisogno il brodo caldo. Far cuocere a fuoco basso per circa due ore.  

 

Nel frattempo cuocere le patate, che, una volta intiepidite, dovranno essere sbucciate e tagliarle a tocchetti piccoli. Verranno aggiunte nel brodo, insieme alla carota, pochi minuti prima di servire a tavola.

 

 

 

 




Rossana Gaja, la psicoenologa di casa GAJA

Rossana Gaja una donna del vino, o meglio, la ‘psicoenologa di casa Gaja’.

Mi sembra quasi di vedere la vostra espressione mentre, soffermandovi su questo termine starete già pensando: ‘ecco che ne hanno inventata un’altra!’

Tranquilli, questa definizione con la quale Rossana si è presentata la sera in cui l’ho conosciuta, trae origine dal fatto che, essendo laureata in psicologia, applica questa sua formazione nel mondo del vino in cui vive e lavora. 

Gaja, un’apprezzata realtà vitivinicola del Piemonte che ha avuto origine nella seconda metà del 1800, con la vendita di vino sfuso nell’Osteria del Vapore. Fu Giovanni Gaja, nel 1859, ad avviare la Cantina a Barbaresco, nelle Langhe.

Oggi è il figlio Angelo, che, insieme alla moglie Lucia e alle figlie Gaia e Rossana, da continuità all’attività di famiglia.

L’ho già scritto e mi ripeto, amo i passionali, le persone di carattere, quelle che la mano te la stringono sul serio, quelle che quando parli ti guardano negli occhi, e la cui parola data ha ancora un valore. Ebbene, sono queste le persone che mi piacciono,  che cerco, e che voglio conoscere!

Quella sera, a Bergamo, cenando una di fronte all’altra al Ristorante M1.lle Storie & Sapori, con Rossana si è parlato a lungo.

Devo ammettere che mi è piaciuta da subito. La sua stretta di mano decisa, il suo porsi determinato, a volte ruvido ma schietto, mi ha indotto a volerla conoscere meglio.

In questi giorni, dopo che ci siamo scritte, ho deciso di portarla qui, tra i miei ricordi.

Ciao Rossana, ieri sera parlavo di te con un amico, gli dicevo – sai, ho conosciuto una donna ‘tosta’, una donna determinata di gran carattere, che vedrei bene nelle istituzioni per favorire l’agricoltura…

Sai, amo la terra, amo conoscerne la storia, i suoi prodotti e i suoi protagonisti. A modo mio, come posso, con i mezzi che ho, oltre che viverla cerco di raccontarla. Ascoltandoti quella sera ho pensato che forse, una donna decisa come te, potrebbe qualcosa…

Risposta di Rossana Gaja:

Ciao Cinzia, spero che tu stia bene! Io sono a Barbaresco, oggi siamo avvolti nella nebbia e sembra essere finalmente arrivato l’autunno.

Ti ringrazio molto per le tue parole gentili. Il vino è un prodotto unico, ma la cosa più straordinaria è la sua capacita di creare legami tra le persone, perché è tradizione, famiglia, saperi, cultura, condivisione, memoria… Pochi prodotti portano con se questi valori.

Nel mio piccolo, credo che per salvare l’agricoltura dobbiamo lavorare rispettando la terra, cercando di andare verso un’agricoltura naturale, rispettosa dell’ambiente, senza l’utilizzo della chimica.

La terra è il nostro patrimonio più grande!

Produrre vini legati ad uno specifico territorio: ‘il segreto di un vino non è la perfezione, ma il difetto che riconduce al terroir’.

Rispettare questi paesaggi proteggendoli dalle brutture dell’edilizia e dal cemento cercando di essere attenti e maggiormente sensibili alla bellezza del nostro paese.

Insegnare ai giovani a bere bene, consumare il vino esclusivamente durante i pasti e non per le strade o a digiuno.

Questa è una macchina che si è già messa in moto, ma si deve fare ancora tanto. Io sono ottimista, il futuro del vino lo vedo in rosa! Rossana Gaja 

Indovinate qual è il suo vino preferito? Il vino rosso di carattere, come che piace a me. Quella sera abbiamo brindato con il suo Barbaresco DOCG 2010 (Nebbiolo), e con lo Sperss Langhe Nebbiolo DOC 1999, sperss, nome dialettale piemontese che significa nostalgia, (94% Nebbiolo e 6 % Barbera) prodotto a Serralunga d’Alba, nelle Langhe.

GAJA
Barbaresco (CN)




Con la mano sul cuore, scelgo l’extra vergine

Qui di seguito riporto la mia intervista, o meglio, il mio approccio con l’olio, raccontato rispondendo alle domande di Luigi Caricato, direttore di Olioofficina Magazine, per la sua Rubrica ‘Che Olio Sei‘.

Per l’articolo originale cliccare qui.

La farm blogger Cinzia Tosini racconta la sua esperienza e il suo approccio con l’olio, a partire dall’infanzia. Per lei continua a rappresentare la cosa buona, ciò che fa bene, il prodotto prezioso e ricercato che va usato con cura.

Cinzia Tosini si definisce farm blogger. Così, di fronte al dilagare dei food blogger, c’è chi, invece, parte da una visione diversa, direttamente dalla terra, dai protagonisti del cibo prima ancora di approdare in cucina e poi sulle tavole. 

  • Quale idea di olio lei si è fatta nel corso dell’infanzia? L’olio di quegli anni è stato quello ricavato dalle olive o un olio di semi?

La mia infanzia è legata all’olio molto più che per un’idea. Da bambina l’olio rappresentava la cosa buona, ciò che faceva bene, il prodotto prezioso e ricercato che andava usato con cura. Ero uno ragazzina gracile con una salute cagionevole, un’unica figlia di un padre dalle cure premurose. L’olio era la terapia naturale che lui non mancava di aggiungere ad ogni mio piatto. Ricordo ancora le sue parole: “Cinzia, papà adesso ti mette l’olio buono così diventi forte…” Crescendo la mia idea non è cambiata, tutt’altro, si è rafforzata. L’olio, quello buono, quello ricercato, continua ad essere protagonista nella mia cucina. Ovviamente l’olio di quegli anni e degli anni a venire, per me, è solo l’olio ricavato dalle olive. Null’altro a mio gusto personale ha mai retto il confronto.

  • Una curiosità: i sapori e i profumi dell’olio della sua infanzia coincidono con quelli che invece percepisce e apprezza oggi?

I profumi e i sapori dell’infanzia, essendo associati ai ricordi e alle emozioni, sono inimitabili e ineguagliabili. Come diceva l’antropologo Marino Niola – ciascuno di noi ha la sua madeleine, il sapore che gli ricorda la meglio età. Non è solo rimpianto dei sapori d’antan, ma uno stato di grazia da ricreare, una ricerca del tempo perduto. E quando ci riesce proviamo uno stupore infantile, una gioia bambinesca che ci fa socchiudere gli occhi di piacere… è tempo ritrovato. Tuttavia, lasciando da parte la nostalgia e scegliendo con attenzione, oggi si possono trovare ottimi prodotti dai sapori e dai profumi che fanno dell’olio extra vergine di oliva, una tipicità da promuovere e valorizzare per l’alta qualità ricercata da molti paesi al mondo.

  • Cosa apprezza di più di un olio extra vergine di oliva?

La cosa che mi piace di più in un olio extra vergine di oliva, è senza dubbio il suo profumo. Sentendolo non riesco proprio a far a meno di socchiudere gli occhi. Se è buono la mia espressione è di pura beatitudine, mentre se non lo è… bè, lascio a voi immaginare.

  • Quanto sarebbe disposto a spendere per una bottiglia di extra vergine?

Diciamo che, ovviamente senza esagerare, non bado a spese. Se penso che ci sono persone disposte a spendere cifre folli per acquistare un profumo, intendo per il corpo, mi viene spontaneo sorridere. Io non spendo cifre folli, spendo cifre ragionevoli per acquistare un prodotto di qualità che ricerco, oltre che per il buon profumo, anche per il buon gusto. Che ci volete fare… son fatta così!

  • A tal proposito, per lei la bottiglia che frequentemente acquista di quant’è? Da 250, 500, 750 ml o da litro?

Se è buono decisamente un litro, anche perché l’olio extra vergine di oliva per me non è solo un condimento, accompagnato dal pane è soprattutto il mio spuntino preferito.

  • In tutta sincerità, senza alcuna senso di colpa o imbarazzo, qual è il suo condimento preferito tra tutti i grassi alimentari?

Senza dubbio e senza incertezza, e aggiungo con la mano sul cuore, l’olio extra vergine d’oliva! 

  • Basta olio. Veniamo al suo lavoro. A cosa sta lavorando?

Il mio vero lavoro, oltre che la mia passione e ormai la mia vita, è quello di raccontare ciò che la terra, attraverso l’esperienza delle persone che la lavorano e che la rispettano, permette di produrre. Il risultato di questa espressione è rappresentata dalle molte tipicità che fanno l’Italia un grande paese conosciuto nel mondo. La missione, mia, e quella tutti i veri italiani, è promuovere tutto questo.

 




Con la mano sul cuore, scelgo l’extra vergine

Intervista di Luigi Caricato pubblicata il 17 Novembre 2013 su Olio Officina Magazine

Cinzia Tosini si definisce farm blogger. Così, di fronte al dilagare dei food blogger, c’è chi, invece, parte da una visione diversa, direttamente dalla terra, dai protagonisti del cibo prima ancora di approdare in cucina e poi sulle tavole.

  • Quale idea di olio lei si è fatta nel corso dell’infanzia? L’olio di quegli anni è stato quello ricavato dalle olive o un olio di semi?

La mia infanzia è legata all’olio molto più che per un’idea. Da bambina l’olio rappresentava la cosa buona, ciò che faceva bene, il prodotto prezioso e ricercato che andava usato con cura. Ero uno ragazzina gracile con una salute cagionevole, un’unica figlia di un padre dalle cure premurose. L’olio era la terapia naturale che lui non mancava di aggiungere ad ogni mio piatto. Ricordo ancora le sue parole: “Cinzia, papà adesso ti mette l’olio buono così diventi forte…” Crescendo la mia idea non è cambiata, tutt’altro, si è rafforzata. L’olio, quello buono, quello ricercato, continua ad essere protagonista nella mia cucina. Ovviamente l’olio di quegli anni e degli anni a venire, per me, è solo l’olio ricavato dalle olive. Null’altro a mio gusto personale ha mai retto il confronto.

  • Una curiosità: i sapori e i profumi dell’olio della sua infanzia coincidono con quelli che invece percepisce e apprezza oggi?

I profumi e i sapori dell’infanzia, essendo associati ai ricordi e alle emozioni, sono inimitabili e ineguagliabili. Come diceva l’antropologo Marino Niola – ciascuno di noi ha la sua madeleine, il sapore che gli ricorda la meglio età. Non è solo rimpianto dei sapori d’antan, ma uno stato di grazia da ricreare, una ricerca del tempo perduto. E quando ci riesce proviamo uno stupore infantile, una gioia bambinesca che ci fa socchiudere gli occhi di piacere… è tempo ritrovato. Tuttavia, lasciando da parte la nostalgia e scegliendo con attenzione, oggi si possono trovare ottimi prodotti dai sapori e dai profumi che fanno dell’olio extra vergine di oliva, una tipicità da promuovere e valorizzare per l’alta qualità ricercata da molti paesi al mondo.

  • Cosa apprezza di più di un olio extra vergine di oliva?

La cosa che mi piace di più in un olio extra vergine di oliva, è senza dubbio il suo profumo. Sentendolo non riesco proprio a far a meno di socchiudere gli occhi. Se è buono la mia espressione è di pura beatitudine, mentre se non lo è… bè, lascio a voi immaginare.

  • Quanto sarebbe disposto a spendere per una bottiglia di extra vergine?

Diciamo che, ovviamente senza esagerare, non bado a spese. Se penso che ci sono persone disposte a spendere cifre folli per acquistare un profumo, intendo per il corpo, mi viene spontaneo sorridere. Io non spendo cifre folli, spendo cifre ragionevoli per acquistare un prodotto di qualità che ricerco, oltre che per il buon profumo, anche per il buon gusto. Che ci volete fare… son fatta così!

  • A tal proposito, per lei la bottiglia che frequentemente acquista di quant’è? Da 250, 500, 750 ml o da litro?

Se è buono decisamente un litro, anche perché l’olio extra vergine di oliva per me non è solo un condimento, accompagnato dal pane è soprattutto il mio spuntino preferito.

  • In tutta sincerità, senza alcuna senso di colpa o imbarazzo, qual è il suo condimento preferito tra tutti i grassi alimentari?

Senza dubbio e senza incertezza, e aggiungo con la mano sul cuore, l’olio extra vergine d’oliva!

  • Basta olio. Veniamo al suo lavoro. A cosa sta lavorando?

Il mio vero lavoro, oltre che la mia passione e ormai la mia vita, è quello di raccontare ciò che la terra, attraverso l’esperienza delle persone che la lavorano e che la rispettano, permette di produrre. Il risultato di questa espressione è rappresentata dalle molte tipicità che fanno l’Italia un grande paese conosciuto nel mondo. La missione, mia, e quella tutti i veri italiani, è promuovere tutto questo.




Roberto Franzin, un cuoco a Roma con il cuore a Treviso

Ci sono cuochi che sentono la necessità di vivere in intimità la loro cucina. La loro missione è, oltre che cucinare, dare la giusta espressione del territorio ai piatti che elaborano.

A tal proposito mi vengono in mente le parole del mio caro amico romano Giorgio Ferrari: “Il territorio italiano pulsa di Storia ad ogni passo. Perché certi piatti si fanno così in un determinato posto e non in un altro? Perché la creatività, la fantasia e le esigenze della gente di quel posto hanno creato quella cucina”.

E’ cosi che Roberto Franzin, un cuoco di Treviso trasferitosi a Roma da qualche anno, mi ha descritto il suo lavoro. Ho avuto modo di conoscerlo recentemente ad un workshop organizzato dal Gruppo Ristoratori della Marca Trevigiana a cui ho partecipato.

Lui di Treviso, io di Treviso… bè, il risultato è stato di tante chiacchiere e sorrisi. Roberto ha un sogno nel cassetto, tornare a casa, tornare alla sua Treviso. Un sogno che condividiamo… Ma ora è il suo momento, e quindi vi racconterò di lui.

Ha iniziato lavorando in una trattoria di campagna dove la cucina povera era protagonista.

“Cinzia, ricordo quel periodo con profonda emozione, perché oggi più di prima sono convinto che quello che mi hanno insegnato allora, è più importante di quello che pensavo di aver scoperto dopo”.

Suo padre lavorava la terra per conto di terzi, a volte Roberto lo seguiva nel vigneto. La terra insegna…

“Con lui ho imparato a sentire il profumo della terra, ma non solo, ho imparato che le piante vanno amate, non dominate… niente deve essere forzato”.

Sua madre per breve tempo conobbe la Sicilia e il calore e i profumi di una terra unica.

“Lei mi ha trasmesso l’amore per la cucina e il rispetto di quei prodotti che sapientemente coltivava nel suo orto. Ho carpito così il gusto delle cose semplici… nei ricordi interpreto il presente”.

Il suo percorso di cuoco è iniziato nel 1985 al Ristorante L’Estroso, a Oderzo, in provincia di Treviso.

“Gli anni passano, e dopo un decennio mi accorgo che per seguire bene la mia passione devo liberarmi della burocrazia e della contabilità. Da qui la scelta di lavorare come chef alle dipendenze, occupandomi esclusivamente del menu e della gestione della cucina… raggiunta la mia maturità potevo finalmente dedicarmi alla mia passione: mi offrono di prendere la guida del Ristorante La Corte della famiglia Zanon presso il Relais & Chateau Villa Abbazia di Follina, nobile palazzo del XVII secolo.”

Il 14 Agosto 2009 Enzo Vizzari, direttore dell’Espresso, organizza a Treviso un convegno sulla cucina facendo intervenire due grandi docenti del panorama europeo: Santi  Santimaria, cuoco spagnolo del Ristorante Can Fabes, e lo chef  Jean-François Piège, cuoco francese di Les Ambassadeurs Hôtel de Crillon di Parigi. In quell’occasione Roberto osserva cercando di capire i due poli di congiunzione di due grandi della cucina a cui ha l’onore di assistere.

“Pièges grande tecnica, Santimaria territorio puro. Sono curioso, ho imparato a osservare, non mi limito a guardare: sono due cose diverse. Ritengo sia importante la ricerca, ma non mi piacciono le cose estreme. Alle volte mi concedo qualche volo, pur restando sempre legato al mio territorio. Cerco di rivalutare la materia prima, perché la considero il punto di partenza per una buona cucina”.

Ed è proprio con Santi Santimaria, che, dopo una lunga chiacchierata e un pezzo di pane intinto con un pomodoro e condito con olio extravergine d’oliva, si apre la via. I piatti di Roberto iniziano ad alleggerirsi.

“Decisi allora di concentrarmi sulla ricerca delle mie radici, trovare l’espressione per far sentire chi ero e da dove venivo. Oggi la mia cucina è cosi…. Territorio”.

Il percorso di Roberto è continuato a Roma, all’Osteria Le Coq. Il destino alle volte ci porta via dalla nostra terra, dai ricordi, dai suoi profumi. Il richiamo delle radici però è troppo forte…

“Quando torno a Treviso l’emozione è sempre la stessa.  Credo che in ognuno di noi risieda questo legame del vissuto, del richiamo delle radici, quasi un cordone ombelicale… Il ricordo del pranzo della domenica, dell’profumo del bollito, del rafano che mio padre grattava e conservava sotto l’aceto, del pane della festa, dell’odore della legna che brucia nel camino… Nella mia cucina e nei piatti che abitualmente preparo, vengono evocati quei momenti”.  

Oggi Roberto, presso il ristorante Le Coq, elabora un menu dal nome Briciole legate al suo essere. Una sequenza di portate che racconta, affacciandosi dalla cucina ai tavoli, per far partecipare gli avventori come se fossero seduti nella cucina di casa sua.

“Non mancano le contaminazioni, come la Carbonara D’Oca coi Bigoli, le Oche che i Romani portarono a Mondragon, piccola collina del trevigiano. Li le allevavano per alimentare il popolo ebraico della Giudecca, sono cosi che nascono i miei piatti. Non dobbiamo dimenticare la storia… se facciamo un passo indietro, torniamo a quello che io ritengo sia il futuro. Come per lo storione in porchetta, per ricordare ai romani che un tempo anche il Tevere era popolato da questo pesce preistorico. Questo genere non si è mai evoluto alle esigenza del territorio, ma ha preferito allontanarsi. Oggi nel Sile e nel Piave esistono ancora degli esemplari che sono protetti. Il gioco e li, risiede in quel sasso rovente raccolto nel Piave che regge un trancio di quel pesce che un tempo popolava quasi tutto l’adriatico e i suoi fiumi, la brace sotto a formarne una affumicatura lieve, accompagnato da un gelato in carpione di acqua di radicchio e cipolla di Bassano con sentori di fumo. Il carpione era usanza della cucina di un tempo come il savor, per conservare più a lungo i cibi cotti… ma qui messo per conservarne la storia”.

Non dimenticare da dove vieni, altrimenti non potrai raccontare chi sei, queste le parole che mi ha confidato Santi Santimaria… Roberto Franzin

 




Il dolce calar del sole con lo sguardo rivolto ai vigneti…

Ci sono periodi in cui tutto sembra andar male, periodi in cui la voglia di fuggire per allontanarci da ciò che ha deluso le nostre aspettative è di grande tentazione. Le mie ultime settimane sono state così. 

Ma come…? La donna frizzante, quella sempre piena di vita, quella che ovunque sorride ad un tratto s’intristisce?! La realtà è che capita a me come capita a tutti. L’unica soluzione possibile è reagire, e quando si può… fuggire!

Ma attenzione, dai problemi non si fugge, non servirebbe… i problemi sono come nodi nei capelli, se non li sciogli, continuano a moltiplicarsi. Le fughe a cui mi riferisco, per lo meno le mie, sono semplici evasioni verso quella natura che mi rilassa, che mi da pace, e che mi ricarica.

Amo viaggiare, senza fretta, con la mia musica, con le mie soste, ma soprattutto con lo sguardo rivolto al mutare dei paesaggi.

E’ così che i respiri riprendono i tempi giusti, e l’energia risale riportandomi a quel benessere che mi fa sentire l’esigenza di condividere a modo mio, ciò che vivo e che mi emoziona. Questa è la mia terapia… una terapia di buona vita.

Ed è proprio così,  con il dolce calar del sole e con lo sguardo rivolto ai vigneti, che si è conclusa la mia giornata nella pace dei silenzi della natura a Mocasina di Calvagese, in provincia di Brescia.

Da tempo, Attilio Pasini, enologo e titolare dell’azienda agricola La Torre, mi aveva invitata a  visitare i suoi vigneti. Questa realtà posta sulle colline moreniche occidentali del lago di Garda, prende il suo nome da un antico Torrione situato nelle vicinanze.

Una cascina storica che, nonostante i restauri nel tempo, ha mantenuto l’assetto originale risalente al XVII secolo. Una storia di tradizioni familiari tramandate di generazione in generazione, che oggi conta ventidue ettari destinati a vigneti e ad uliveti.

Come sempre accade durante i miei incontri, gli scambi di esperienza non mancano mai, è così che si impara. Chiacchierando in un pomeriggio di sole autunnale, ho passeggiato tra le vigne e le vecchie cantine dai soffitti a volta in una tipica struttura originariamente sede di un antico convento.

Finita la visita, abbiamo continuato la nostra chiacchierata nella sala degustazione mangiando caldarroste accompagnate dal un Garda Classico Rosso Superiore DOC, Vendemmia 2007, il Rosso del Cuntì.  Questo nome deriva dall’appellativo attribuito in passato a Lorenzo, il fondatore dell’azienda agricola La Torre e ideatore di questo vino.

L’uvaggio è per il 60% Marzemino, per il 30% Groppello di Mocasina, per il 10% Sangiovese e Barbera. Viene vinificato in acciaio e fatto riposare in cemento vetrificato. Successivamente riposa in barriques e tonneaux per almeno un anno. Un vino di carattere che si avvicina ai miei gusti.

 

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