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Ma il formaggio, dove lo metto !?

Qualche giorno fa sono stata sgridata per aver messo il formaggio in frigorifero.

 “Cinzia, il formaggio non va messo in frigorifero! Va tenuto fuori, e alla giusta temperatura.” Facile a dirsi! Mica tutti hanno la dispensa o la cantina!

A questo punto mi son chiesta:  “Ma il formaggio, dove lo metto !?”

Per sciogliere i miei dubbi, l’unica è stata contattare il mio Maestro Assaggiatore di formaggi, Paolo Leone. Laureato in Scienze della Produzione Animale e Ricercatore ed esperto divulgatore della cultura dell’alimentazione, son certa chiarirà la questione.

A lui la parola…

Dunque Cinzia, ti spiego. Innanzitutto dipende dal formaggio.

  • In linea generale ti posso dire che:
    a) va tenuto in frigorifero,
    b) va avvolto in una carta o in una pellicola,
    c) va posto nella parte più bassa,
    d) va conservato preferibilmente in una scatola (ce ne sono di plastica con coperchi forati),
    e) va tenuto per poco tempo,
    f) va pulito bene prima del consumo nel caso ci fossero muffe,
    g) prima di rimetterlo in frigorifero cambiando eventualmente la carta/pellicola,
    h) va fatta attenzione all’umidità, eliminando nel caso le eventuali gocce di condensa.  

Le variabili sono la temperatura e l’umidità del frigorifero, se è ventilato o meno…

Il parmigiano può essere avvolto in un canovaccio umido ma attenzione a controllare l’umidità del panno.

Usare taglieri diversi per i formaggi a crosta lavata (formaggi sulla cui superficie si effettuano spugnature e lavaggi con salamoie), e a crosta fiorita (crosta che si forma in seguito al trattamento con muffe speciali), per evitare contaminazioni successive durante la conservazione.

Cinzia, ovviamente sono consigli dispensati senza pretesa di esprimere la Summa delle conoscenze scientifiche.

Certo che si Paolo, e sai, voglio concludere con un proverbio milanese che la dice lunga…

In milanese si dice: “La buca l’è minga straca, se la sa nò de vaca”

La bocca non è mai stanca se prima non ha il sapore del formaggio 😉




Il Gatto e la Volpe in un Cantuccio

Il gatto e la volpe direte !? In un Cantuccio poi !? Ma chi saranno mai ?

Ora vi spiego… Mi sto riferendo ad uno cuoco birichino, Mauro Elli Chef e Patron del Ristorante Il Cantuccio che, in accordo con Rocco Lettieri, ha organizzato una cena con tranello, o meglio, una cena didattica. Posso dirvi solo che, ridendo sotto i baffi che tra l’altro non hanno, i due bontemponi ce l’hanno proprio tirata…

“Il vino ha la straordinaria proprietà di poter cambiare intensità, profumi, aromi nell’arco di una serata solo modificandone la temperatura.” Mauro Elli

Ieri sera ho partecipato ad una cena didattica in compagnia di Elio Ghisalberti, Rocco Lettieri, Albero Schieppati, Roberta Schira, Giacomo Mojoli e naturalmente Mauro Elli. Tutti esperti comunicatori di enogastronomia, loro almeno, io più che esperta assaggio e ascolto, quando riesco a stare zitta ovviamente.

Rocco Lettieri ha introdotto la serata spiegandoci che avremmo degustato al buio cinque vini rossi toscani, in cinque calici con forme differenti, a temperature diverse, ovviamente abbinati ai piatti della cucina di Mauro. Noi avremmo dovuto indovinare il vino, l’annata e l’abbinamento migliore, scrivendo delle note di degustazione ad ogni portata.

Una cosa che proprio detesto fare, è parlare o scrivere di vino in modo tecnico. Mi annoia proprio, ovviamente con tutto il rispetto per chi lo fa. Il vino per me è ben altro, è storia , è territorio, è filosofia di vita. Ricordo che, poco tempo fa, assaggiando un vino di Giorgio Grai, lui stesso mi ha chiesto di raccontarglielo. La mia risposta è stata: “Io il vino lo bevo, lascio agli esperti il compito di raccontarlo”. Per intenderci, per esperti mi riferisco a chi lo produce; mi piace ascoltare da loro come nasce un vino.

Ho fatto questa premessa per farvi capire quanto poco entusiasmo avevo all’inizio della cena. Quando poi Rocco ha raccomandato a tutti di prestare attenzione e di parlare poco mi son detta: “Uh signur, che serata che mi aspetta!” Invece no! Devo confessarvi che mi sono proprio divertita! Perché…? Un po’ per il folclore che faccio al mio solito provocando forse un pochino, ma solo per conoscere meglio le persone, e poi, perché Mauro portava i vini ad una temperatura ingannevole, diciamo così.  Io con le mani li scaldavo, perché il vino rosso, quello buono, ad una temperatura troppo bassa, proprio non mi piace!

Ma il trucco era proprio qui, far assaggiare “lo stesso vino” a temperature completamente diverse. Cambia, e come se cambia, così tanto da sembrare un vino diverso. Chi ha vinto? Nessuno e tutti, anzi, ha vinto il vino! Un fantastico rosso toscano, l’Ardito di Riccardo Baracchi, annata 2006, uvaggio 50% cabernet sauvignon e 50 % syrah.

E’ stata una serata didattica molto istruttiva… ma anche molto appetitosa!

Un grazie particolare al gatto e alla volpe!

 




“Ma il caffè in polvere si deve conservare in frigorifero, o no !?

Recentemente mi sono sentita rimproverare perché non tenevo il caffè in frigorifero…

Sinceramente la cosa mi ha colto di sorpresa. D’istinto la mia prima risposta è stata: “Ma che dici?”  Vista però la determinazione del mio interlocutore, ho deciso come al mio solito di approfondire l’argomento andando a fondo alla questione.

Sentiamo un po’ di pareri…

  • Lucia Galasso, Direttore Scientifico presso Museo della Civiltà Contadina e dell’Ulivo e apicoltrice

– Che io sappia in frigorifero si conserva meglio sia l’aroma che il sapore (io sempre in frigo).

  • Samuele Vergari di Foodwinebeer.it  

– No, io lo tengo al buio e in un luogo fresco e asciutto.

  • Raffaella Fortunato di cookartmagazine.com

– C’è una linea di pensiero che va in questa direzione. Io lo tengo in un luogo asciutto e in un barattolo con tappo a vite.

  • Teresio Nardi, Capo Condotta Slow Food – Oltrepò Pavese

– Io lo conservo nella dispensa, in un luogo asciutto e nel barattolo.

Vuole il caso che, a son di chiedere qui e la, mi sono imbattuta nello stand del Caffè Corsini a TUTTOFOOD 2013, la fiera dell’agroalimentare a Milano. 

Qui ho posto il quesito a Enrico Gigliarelli Direttore Vendite,  e a Santi Anedotti Direttore Commerciale dell’azienda. Grazie allo loro esperienza pluridecennale ho potuto appurare che, la cosa importante per la conservazione del caffè, è la chiusura ermetica del contenitore.

Riducendo il contatto del prodotto con l’aria se ne permette la conservazione e il mantenimento dell’aroma.

Per quanto concerne invece la questione “frigorifero”, ho assodato che le basse  temperature raffreddano gli oli presenti nel caffè non favorendo il miglior risultato finale. L’ideale è conservarlo ad una temperatura di 12/13 gradi. (Vi ricordate le belle dispense di una volta…)

Bene, sembra finalmente chiarita la questione, quindi mi preparo un bel caffè,  perché il caffè, è una cosa seria!  😉

 

 





Il senso di appartenenza ad una terra

Lorenzaga di Motta di Livenza, Treviso

C’è una terra a Treviso che mi ha salvato due volte. Una prima volta da bambina, e una seconda pochi anni fa. Ormai sento di appartenerle, comunque sia e comunque sarà, so che sono parte di essa. Appena posso torno da lei. L’emozione al mio arrivo la stessa, sempre, come la tristezza che mi assale alla partenza, quando devo lasciarla.

Una terra piena di ricordi…

Li rivivo passeggiando nelle vigne dell’Azienda Agricola Vecchio Olmo confinanti con la casa di famiglia dove ho passato i momenti più felici della mia infanzia.

Un vigneto di circa quindici ettari nella frazione di Lorenzaga di Motta di Livenza che la famiglia Berto, i proprietari, hanno chiamato così in onore di un vecchio olmo presente nella tenuta. Da oltre sessant’anni, dai capostipiti Maria e Pietro, e poi a seguire, dai figli Sergio e Mario, la famiglia Berto continua la  tradizione della coltivazione della vite e della produzione dei vini nel rispetto dell’ambiente. Raboso Trevigiano, Merlot, Malbech, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Refosco dal Penducolo Rosso, Pinot Bianco, Chardonnay, Verduzzo Trevigiano, Glera Prosecco, questi i loro vini.

Come avete letto, nelle loro produzioni c’è anche il Prosecco, e qui mi fermo un attimo per una riflessione.

Durante le mie ultime scorribande su e giù per il trevigiano si è discusso sia con produttori che con amici enologi di questo vino di antiche origini che, negli ultimi anni, gode di un particolare successo tra i consumatori. Questa tendenza favorevole non dovrebbe che farmi piacere. Peccato che ci sia il rischio, che ormai definirei certezza, del saccheggio alla terra trevigiana dei suoi vitigni storici vocati, espiantati e sostituiti con prosecco, prosecco e ancora prosecco. Ma attenzione, c’è prosecco e… Prosecco DOCG !  

Complice di questa situazione confusa il mercato condizionato dalla poca cultura che ahimè, chi dovrebbe, non trasmette a dovere.Vi cito solo un esempio. Poco tempo fa a Como in un ristorante che mi era stato consigliato, l’addetto alla sala nonché proprietario al mio ingresso ha esordito dicendomi: “Cominciamo con un prosecchino?”  La mia risposta secca è stata: “Cominciamo male !”  Ma vi pare il modo di presentare un Prosecco ?!  

A questo proposito approfitto per far intervenire l’amico Paolo Ianna che, partecipando attivamente alla manifestazione “Vino in Villa”,  ha avuto modo di approfondire l’argomento.

 

Paolo Ianna

Paolo Ianna

Ciao Cinzia,

A Vino in Villa abbiamo assaggiato un centinaio di Prosecco DOCG per la Guida ViniBuoni D’Italia; ne dobbiamo ancora assaggiare molti nei prossimi giorni.

La qualità, dall’avvento della DOCG dal 2010, è sempre più alta. Con l’introduzione della nuova opportunità della tipologia “Rive”,  l’orgoglio di avere un nome di prestigio per un proprio prodotto ha orientato in modo più che positivo l’impegno nel produrre con più attenzione e cura.

Potrei aggiungere che i produttori credono nella loro potenzialità, molto più che nel recente passato. Quindi, Prosecco di alto pregio la cui qualità aumenta di anno in anno.

Purtroppo si stanno espiantando vigneti che davano dei buonissimi vini rossi che, un mondo del vino orientato da guru, snob, e salottieri, non ha mai riconosciuto come tali.

Non me la sento di giudicare le scelte dei produttori che cercano solo di procurarsi fonti di reddito non legate alle bizze e ai capriccetti di qualche guida, che rilascia giudizi morali senza che vengano richiesti.

Spero di non essere stato troppo polemico.

 

Paolo non è stato affatto polemico, ha solo espresso una verità che condivido pienamente. Le nostre parole sono spinte dalla passione e dall’amore per il territorio nel senso più lato del termine. Un territorio con una zona di produzione storica ben definita, garante di qualità e di Superiorità.

Come ha sottolineato lui stesso, l’introduzione della tipologia “Rive” riservata agli spumanti, è pura espressione di territorialità essendo legata ad un prodotto proveniente da uve di un unico comune o frazione di esso. Questo termine nella parlata locale, indica vigneti situati in terre scoscese.

 




Vino cotto, mosto cotto o… tutti e due?

La ricetta: “Caldidolci al Vin Cot di Quistello”

Vino cotto o mosto cotto? Direi tutti e due, ma siamo sicuri di conoscere la differenza? Per fare un po’ di chiarezza mi  farò aiutare dai produttori.

Recentemente, dopo aver conosciuto meglio entrambi i prodotti, mi sono resa conto che non tutti ne conoscono le differenze. Ambedue ottime produzioni, diverse però sia per densità che per gli usi a cui sono destinate.

Partiamo innanzitutto dal presupposto che ilvino cotto del Picenoè un vero e proprio vino. E’ ottenuto dalla bollitura del mosto dei vitigni di Verdicchio, Trebbiano, Montepulciano e Sangiovese, e viene invecchiato in botti di legno di rovere. E’ un vino da dessert, utilizzato anche nella preparazione di dolci e per insaporire le carni. Oltretutto è un ottimo rimedio per curare tosse e raffreddore, e per chi come me, ama la medicina naturale, questo è già un ottimo motivo per parlarne.

Me lo ha fatto conoscere Emanuela Tiberi dell’Azienda Agricola David Tiberi di Loro Piceno, con la quale, durante una serata del girotondo enogastronomico “Per Tutti i Gusti” coordinato da Carlo Vischi, ho avuto modo di chiacchierare.

Passo ora al “vino cotto mantovano” che, nel termine dialettale, viene chiamato “vin cot”. L’ho conosciuto grazie alla cara Paola della Cantina Quistello di Mantova, prima su Twitter, e poi di persona a GourMarte, la manifestazione enogastronomica coordinata da Elio Ghisalberti.

La Cantina sociale di Quistello è una cooperativa costituita nel 1928 da un gruppo di viticoltori la cui produzione si estende lungo le rive del fiume Secchia. Un territorio ricco di antiche tradizioni viticole e gastronomiche che ben conosco e apprezzo per le mie origini paterne mantovane.

Dunque, qui ad aiutarmi a far chiarezza è il loro Presidente, che mi definisce il loro vino cotto non un vino, ma un mosto cotto; è usato come condimento per piatti di carne, per insalate, e anche per dolci.

Come stabilito da disciplinare di produzione del vin cot, la materia prima utilizzata è il mosto d’uva Lambrusco Grappello Ruberti, vitigno storico coltivato nella zona di produzione dell’IGP Quistello. E’ un prodotto con molta concentrazione di zuccheri d’uva e senza alcol.

In conclusione, tornando alla questione che ho posto inizialmente su: “vino cotto o mosto cotto?” direi proprio tutti e due. Utilizzerò il “Vin Cot di Quistello” nella preparazione di un dolce da loro stessi consigliato, e il “Vino Cotto del Piceno” come vino da dessert per accompagnarlo. 😉

“Caldidolci al Vin Cot di Quistello”

  • Ingredienti:

Un litro di latte, 3 bicchieri di farina di mais sottile, un pizzico di sale, zucchero qb, un pezzetto di burro, una manciata di uva passa, pinoli qb, un goccio di Vin Cot di Quistello.

  • Preparazione:

Preparare una polentina portando a ebollizione il latte mentre si aggiunge a pioggia la farina di mais e un pizzico di sale. Rimestare bene, fino a quando la farina sarà cotta. Aggiungete sempre mescolando, lo zucchero, un pezzetto di burro, un goccio di VinCot e per ultimi l’uva passa e i pinoli.

Con la polentina ottenuta formare tanti biscottini ovali e lasciarli riposare per qualche ora. Passateli poi al forno, facendo attenzione a non seccarli.

I “Caldidolci” come dice la parola stessa, vanno serviti caldi.




“In giro per campi con Fausto Delegà… a raccogliere Silene e Luppolo”

Lui li raccoglie, e io raccolgo lui, o meglio, i suoi racconti! 🙂

Oggi si parla di Silene e Luppolo.  Pronti via!

Qualche giorno fa ho visto le fotografie del raccolto che Fausto  ha fatto girando per campi nella sua bella Austria. Essendo entrambi appassionati di erbe spontanee ogni occasione è buona per parlarne e… per mangiarle! 😉 Con la bella stagione poi, passeggiare per boschi è cosa buona e utile. Oltreché far bene al fisico, passeggiare fa bene al cuore, alla mente, e…  al portafoglio!

Cinzia: Fausto, ciao! Ho visto che sei andato a passeggiar per campi a Lobau, ma dove si  trova?  

Fausto: Ah ah ah, ciao Cinzia! La zona della Lobau é un Nature Park legato al Danubio, zona bellissima con una natura incontaminata.

Cinzia: Che bello! E dimmi, che cosa hai raccolto?

 Fausto: Adesso ti racconto. Oggi ho raccolto un po’ di silene e un po’ di luppolo. In Italia il Silene è conosciuto anche con il termine di Stridoli, o Sgrigiui nel nostro dialetto mantovano. (Per chi non lo sa io e Fausto siamo entrambi di terra di Mantova).   Il Luppolo invece è conosciuto da molti con il termine di bruscandolo.

Cinzia: Mi viene l’acquolina solo a guardarli!  Ma come li prepari?

Fausto: Oltre che mangiarli tal quali come si fa con gli spinaci, sia il silene che il luppolo sono ottimi ingredienti per risotti e frittate.  

Cinzia: Fausto, mi puoi dare qualche consiglio su dove andare a raccoglierli…

Fausto: Cinzia, direi proprio che puoi andare in ogni luogo di campagna sano e pulito. Il Silene lo trovi anche in montagna.  Il Luppolo invece è presente in tutte le ripe di fosso del nord Italia. Attenzione però, quando il silene va a fiore le foglie della gamba diventano coriacee e non sono più buone.

Cinzia: Interessante! Sai, adesso che ci penso bene, mi torna in mente che poco tempo fa mia zia Nadia ha raccolto proprio dei bruscandoli nella mia Lorenzaga di Motta di Livenza a Treviso. Sapendo quanto mi piacciono le erbe spontanee di campo, quella sera ha pensato bene di cucinarli facendomi una buonissima frittata!

Aggiungo infine, ma non per importanza, che sia il Silene che il Luppolo sono piante aromatiche dalle proprietà calmanti e rilassanti. Una tisana fatta con queste erbe favorisce il sonno, e la tranquillità. 😉   





Il cuoco del Papa, colui che venne definito il “Michelangelo della cucina”

Ho conosciuto la scrittrice Ketty Magni grazie al caro Walter Calvi, vignaiolo in terra d’Oltrepò, che, conoscendo la mia passione per la storia e per le tradizioni, ha pensato bene di segnalarmela.

In quel periodo stavo organizzando una serata per beneficenza, Le Donne di Maggio. Quando la invitai non esitò un attimo a partecipare. Ricordo che passammo alcuni momenti della serata ascoltandola nelle letture dei suoi romanzi.

Oggi voglio presentarvi l’ultimo suo scritto “Il cuoco del papa”, un affascinante affresco sull’Italia rinascimentale e su uno dei suoi protagonisti nascosti, colui che venne definito dai contemporanei il “Michelangelo della cucina”.

Il cuoco del papa coniuga felicemente il canone del romanzo storico con la tradizione culinaria Italiana.

Ketty Magni

Il cuoco del Papa

Il libro ripercorre la storia di Bartolomeo Scappi, cuoco segreto, a servizio dei Papi, in epoca rinascimentale.  Dopo una gavetta nell’Italia settentrionale, la sua carriera svolta a trent’anni compiuti: nella Roma ancora caput mundi, dove il papato è una corte di sfrenatezze e castità, viene conteso da cardinali e nobili, fino a quando Pio IV lo vuole con sé e solo per se, come cuoco secreto (ossia privato). Nelle segrete e remote cucine del Vaticano avrà il gravoso compito di servire anche l’inflessibile Pio V. Lui, che aveva sfamato finanche l’imperatore Carlo V, sarà ricercato da cardinali e porporati ogni qual volta c’era da fare bella figura a tavola. Ma Bartolomeo aveva un sogno segreto, l’Opera, tutto il suo sapere gastronomico dispiegato sul bianco delle pagine. Lo realizzerà pubblicandola a settant’anni.

È un florilegio di ricette: teste di storione con viole paonazze, fegato di vitella con sugo di melangole, piccioni fritti con zucchero e cannella, riso alla lombarda, biscotti romaneschi, pottaggi di ombrina alla veneziana salsiccioni alla bolognese. Oltre alle ricette regionali italiane, Scappi accoglie anche le tradizioni straniere: il cuscus alla moresca di provenienza araba, la minestra di latte ungaresca, il cinghiale stufato alla tedesca, il gallo d’India ripieno di oglia potrida alla spagnola, le uova affrittellate alla francese.

Ma Bartolomeo aveva un altro sogno, proibito: la bellissima Claudia Colonna. Proverà per lei l’intenso sapore di un amore impossibile che in una notte di passione rubata alle convenzioni dei tempi gli regalerà un figlio che, per quelle stesse convenzioni, non sarà mai suo.

 

 




“La Famiglia Serandrei… una storia Veneziana di terra e di mare”

La ricetta : “Bigoli in salsa con vellututata di Porri e Pane fritto”

Come diceva William Shakespeare, c’è una storia nella vita di tutti gli uomini, e ascoltarle è la mia passione.  Qualche sera fa, seduta accanto a Kim e a Gianni Serandrei, in occasione del 50’ anniversario del Ristorante “La Caravella”,  ho passato piacevolmente una serata ascoltando la storia di una famiglia Veneziana in una città che da sempre mi riempie gli occhi, il cuore e l’anima…

“Senza ricordi non siamo nulla. Così è per i popoli. Gli italiani sono la somma delle esperienze fatte nella Storia. Se si perdono, si ritorna ad essere il volgo confuso che voce non ha. Così è per il vino e per l’enogastronomia. La cucina povera che diviene ricchezza, il vino dei contadini che diventa DOC. Anche questo è Storia. Le nostre radici hanno fatto nascere il popolo Italiano, con le sue tradizioni, con la sua creatività, con le sue eccellenze conosciute nel mondo”. Giorgio Ferrari, Professore di Storia Contemporanea

Era l’anno 1905 quando Zoe Lustig di origine Ungherese, e Ugo Serandrei, nato a Pisa ma trasferitosi a Venezia, si sposarono. Presero in affitto una piccola pensione di otto stanze che chiamarono “Internazionale” e iniziarono  l’attività alberghiera.

Ugo, una volta tornato dalla grande guerra, insieme al figlio Renzo si dedicò all’albergo ampliandolo e migliorandolo. Nel 1908 nasceva l’Hotel Saturnia & International. Saturnia, antico nome virgiliano dell’Italia.

Situato nel cuore della città, tra Piazza San Marco e le Gallerie dell’Accademia, l’hotel era il punto ideale d’incontro per ritornare, dopo la guerra, a quella voglia di normalità che permettesse di riparlare d’arte e di cultura. Sotto la guida di Renzo Serandrei, nacque così il Ciro’s bar, famoso locale dell’epoca annesso all’hotel, che ebbe l’onore di accogliere personaggi quali Sartre e Simone de Beauvoir.

Nel 1963 un’ulteriore svolta. Il Ciro’s bar venne trasformato da Renzo, grande appassionato di cucina, nel Ristorante “La Caravella” chiamata così per gli interni che riportavano alla memoria i caratteristici ambienti di un antico veliero.

La creatività di Renzo, uomo in continua ricerca, fece si che il ristorante si aggiudicasse per ben venticinque anni consecutivi la stella Michelin. Cinquant’anni di storia e di tradizione: 1963 – 2013.

La continuità nella conduzione familiare ha fatto si che, dopo la morte di Renzo, seguisse l’attività il figlio Alberto.  Dal 2012 l’hotel è gestito da Ugo Serandrei coadiuvato dai figli, quarta generazione della famiglia: Marianna, Gianni, Kim e Greta-Zoe.

Dal 2000 una nuova scommessa, l’Hotel Ca’ Pisani che, come Kim Serandrei mi ha raccontato, si ispira ai principi dei “Design Hotel” reinterpretando il gusto art déco in chiave contemporanea. Essendo un’appassionata di storia che recupera pezzi antichi qua e la, mi ha colpito come, con pazienza, hanno collezionato letti originali anni ’30 e ’40, tutti diversi tra loro.

Chiacchierando seduta a fianco a Kim ho potuto notare la sua capacità di “guardare oltre”. Non tutti la possiedono, è una capacità che si acquista attraversando le difficoltà… che dona ricchezza d’animo e sensibilità. Ad un tratto, mentre gli raccontavo la mia abitudine di raccogliere pietre e sassi a ricordo dei luoghi che visito, mi ha detto: “Cinzia indovina? Mia madre è geologa!”

Rossana Serandrei Barbero, una donna di terra in una città di mare. Le ho chiesto il perché della sua scelta di vita, e, conseguentemente ai suoi lunghi studi legati alle fondamenta di Venezia, mi sono aggiornata sullo stato di salute della città.

  • La mia scelta di vita è presto spiegata. Da adolescente ero innamorata pazza della montagna, delle rocce e, per estensione, dell’arrampicata. Mi sono iscritta a geologia perché volevo fare il geologo in Terra del Fuoco. Ho studiato per quarant’anni il sottosuolo di Venezia e posso affermare che la sua salute, compatibilmente con l’età, può essere definita buona.  Rossana Serandrei Barbero

Durante i nostri discorsi di terra e di mare, quella sera, festeggiando i cinquant’anni di storia de “La Caravella”, lo Chef Silvano Urban ci ha raccontato la sua cucina semplice e rispettosa della tradizione e delle materie prime di qualità.

Oggi si parla di cibo in molti modi: si passa dallo show food al food art, dal media food al concept food fino ad arrivare al food design. Secondo me è giunto il tempo di ritornare alle origini, ovvero ad una cucina in cui la ricerca si basa proprio sullo studio del prodotto, senza volgarità, senza eccessi e senza il disperato tentativo di spettacolizzare a tutti i costi.”

A conclusione di questa mia storia voglio riportare la ricetta del primo piatto scelto dallo Chef Silvano Urban, un piatto tipico della tradizione.

Bigoli in salsa, serviti tiepidi con vellutata di porri e pane fritto

 

Dosi per 4 persone

Ingredienti:

  • 200 g di cipolle;
  • mezzo bicchiere di olio d’oliva;
  • sale quanto basta;
  • 300 g di bigoli scuri (spaghetti integrali);
  • 75 g di acciughe sotto sale;
  • un pizzico di pepe;
  • briciole di pane.

Procedimento:

Sbucciate le cipolle e affettatele finemente. Poi, versate in una padella la metà dell’olio e unitevi le cipolle; fatele appassire a fuoco basso. Cuocete a recipiente coperto, per circa 15 minuti, bagnando le cipolle di tanto in tanto con un po’ d’acqua (non più di un bicchiere in tutto), mescolando il composto fino a che si saranno ridotte in poltiglia. Nel frattempo, mettete sul fuoco l’acqua per la cottura della pasta: appena bolle, salatela e buttate la pasta.

Quando le cipolle saranno cotte, aggiungete le acciughe precedentemente lavate, dissalate e diliscate; con una forchetta schiacciatele ripetutamente, fino ad ottenere una salsetta marrone. Quindi spegnete il fuoco e unite al sugo l’olio rimasto, mescolando. Scolate i bigoli, rovesciateli in una terrina, conditeli con il sugo preparato e del pane fritto sbriciolato.

Tagliate a rondelle 200 grammi di porro; fatelo appassire con un filo d’olio e poca acqua. Correggete il composto di sale e quando sarà cotto, frullate il tutto ottenendo una crema morbida, ma sostenuta, che andrà ad accompagnare la ricetta. Infine, completate il piatto con briciole di pane fritto e filo d’olio extra

L’aggiunta dell’ultimo ingrediente, ovvero i porri, ha l’obiettivo di attenuare il gusto forte delle acciughe. “E’ un piatto spiega lo stesso chef,  che non scende a compromessi con le moderne visioni culinarie”.




Il porfido che mi portò a Gattinara…

Ho conosciuto Paride Iaretti durante una cena a Milano, mentre, seduta a fianco a lui, ascoltavo le molte similitudini delle nostre vite. Quella sera mi ha regalato un sasso, un porfido proveniente dalla sua vigna.

Ve l’ho mai detto che ho la casa piena di pietre? Le raccolgo dovunque. Sono pezzi delle terre che visito e che spesso non vorrei lasciare. Averle vicino mi trasmette energia, mi riporta i ricordi alla mente, mi fa sentire meno lontana…  Avere tra le mani quel porfido mi ha permesso di avere il primo contatto con quella terra che mi ha chiamato alla sua conoscenza.

Paride Iaretti è nato a Gattinara il 1′ Luglio del 1970. Dopo aver frequentato le scuole dell’obbligo, si è diplomato all’Istituto Professionale Alberghiero di Varallo Sesia. Prima cuoco, poi salumiere, e poi… la sua origine contadina ha prevalso.

Mi ha raccontato come, alla fine del 1999, stanco di stare sotto ad una fila di neon in una catena di supermercati, ha deciso di cambiar vita. La notizia espressa quell’anno dal padre di vendere le vigne di famiglia, è stata la scintilla scatenante che  ha determinato la svolta della sua vita.

La “radice affiorante” di una vecchissima Vespolina

La sua passione per le vigne e per il territorio è atavica, essendo discendente da una famiglia contadina di lontane origini gattinaresi che ha sempre fatto vino. Solo il padre, Pietro, se ne è occupato per hobby coltivando circa mezzo ettaro di vigneto. Da li è partita la sua avventura, quando nel 1999, ha speso la sua liquidazione per acquistare un piccolo trattore.

Nei primi tre anni, quelli più duri, ha ristrutturato la vecchia casa di famiglia trasformandola in una cantina posta a tre metri sotto terra, dove il vino, citando le sue stesse parole, riposa al fresco e al buio senza rumori o scossoni. Ora, dopo aver fatto nuovi impianti e ristrutturato vecchie vigne, gestisce quattro ettari di vigneto di cui tre iscritti all’albo vigneti Gattinara DOCG e da cui produce quattro vini: 

  • Gattinara DOCG Riserva 
  • Gattinara DOCG Pietro
  • Velut Luna Coste della Sesia Nebbiolo
  • Uvenere  rosso da tavola da vigneti di circa 50 / 70  anni di età. 

Paride Iaretti, è stato premiato dalla guida Vini d’Italia 2012 de “L’Espresso” per il Gattinara Pietro 2007, e inserito nella cantina didattica di ALMA WINE ACADEMY, la Scuola Internazionale di cucina Italiana di Colorno.

“Cinzia, quando mi hai detto che venivi a visitare i miei vigneti ne sono stato felice; non mi stancherò mai di portare le persone in collina tra i filari a pestare i porfidi vulcanici ricchi di ferro. Solo così si può capire il Nebbiolo di Gattinara, un vino che produco con il massimo rispetto per l’ambiente e per le tradizioni. Paride Iaretti”

Posso solo aggiungere, che chi ama con vera passione il vino, oltre a berlo, lo vive sul campo, ascoltando i racconti di vita contadina di chi lo produce…  

San Martino, di Paride Iaretti     

    

Novembre sulle colline… nella vigna silenziosa un piccolo grappolo d’uva sta ancora aggrappato alla sua madre storta, sfuggito all’occhio e alla forbice del vignaiolo, forse nascosto tra i colori delle foglie di ottobre. Sta li, solitario, nel sole della sera dopo l’ultimo temporale dell’estate di San Martino, consapevole di morire li dove è nato.

Triste, per non aver potuto partecipare alla festa della vendemmia, al viaggio con i compagni nella bigoncia verso la fresca ed oscura cantina, all’euforia della fermentazione e al lungo riposo in botte nell’attesa di esser vino maturo, rubino, corposo e profumato.

Si ricorda di essere stato una piccola gemma, un tenero germoglio appeso ad un fragile tralcio, di essere stato un piccolo e profumato fiore. Ricorda d’aver goduto del sole di luglio e di aver temuto le tempeste di agosto; ed ora, che giungono dal paese le voci e i suoni della fiera, nessuno si ricorda di lui…

Gli saranno grati, in dicembre bianco di neve, i passeri arruffati che infreddoliti ed affamati troveranno ristoro nei suoi acini ormai appassiti dall’inverno che incombe.

 




Da Gianni Cogo, a Giorgio Grai, a Michele Bean, a Franco Dalla Rosa. Nessun incontro è per caso…

Un unico denominatore comune, un grappolo d’uva fatto di tante piccole sfere. Il cerchio si è chiuso, per lo meno questo cerchio. In Giapponese la parola cerchio è tradotta in ‘enso’, e significa illuminazione, forza, universo. E’ il momento in cui la mente si libera dando sfogo alla creatività.

C’era una volta, in un tempo passato, in cui vivevo la mia vita con il freno a mano tirato. Ruotava su se stessa, senza portarmi da nessuna parte. Non vivevo, o meglio, sopravvivevo. Accettare una vita che mi autoconvincevo di avere la fortuna di vivere, era una sfida con me stessa. Ma ora mi chiedo – ma perché mai dovremmo farlo?! –

La vita è vera solo se vissuta. Nel momento in cui lo capisci, pian piano lasci andare il freno a mano, e tutto cambia… Cambia a tal punto che non riesci più a vivere la vita di prima. Quello è l’unico problema. E allora corri, conosci, ricerchi, ma finalmente vivi.  Ed è così che succede che mentre continui a vivere quello che non hai vissuto, e a conoscere quello che non hai conosciuto, incontri persone che ti consigliano, e con cui senti l’esigenza di parlare.

“Nessun incontro è un caso… Incomincio a pensare e a credere decisamente che sia così, e questo pensiero rende la vita più divertente e piena di significato. Se riguardate alla vostra vita passata, potete constatare che ogni persona che avete incontrato, ogni singola persona, ha contribuito a suo modo a farvi essere quello che siete oggi. Kay Pollak”

Ricordo ancora quando incontrai Giorgio Grai su consiglio del viticoltore Gianni Cogo. Quando mi chiese il motivo della mia visita, gli risposi che non lo sapevo, o meglio, ero li per capirlo. Grazie a lui, nonostante le prese di posizione un po’ aspre, mi sono imbattuta in un enotecnico del Collio Friulano, Michele Bean. Incuriosita da alcune sue affermazioni legate a Grai, gli chiesi di incontrarci.

Michele è un giovane enotecnico della terra del Collio. Spigoloso ma genuino, passionale e con vero credo per la terra, convinto come me, che il vino sia fatto da persone. Uno di quegli uomini che i più definiscono ruvidi, con cui io amo confrontarmi. Ci siamo trovati in una piazza di Treviso.

Michele Bean ha iniziato la sua attività nei Colli Orientali del Friuli, seguendo ogni fase della viticoltura, come è giusto che sia per chi vuole realmente capire, imparare e migliorare. Dopo un’esperienza negli USA, nel 2003 è tornato in Italia.  Ora è consulente di aziende in Sicilia, in Toscana e in Friuli. Ma non solo, visto che sta sperimentando nuove realtà e nuovi vitigni in Serbia.

Mi piace aver a che fare con persone stimolanti, che non vogliono vivere per forza sui binari. Il vino ti da la possibilità di diventare una persona migliore, se ne sai carpire l’essenza. Non è il prodotto in se… è una cosa che va ben oltre. E’ quel guizzo che vedi negli occhi quando fai assaggiare cose buone ad altri. E’ la voce rotta di un produttore “vero”,  quando ti parla della sua esperienza di vita e del suo percorso. Sono propositivo, leale, elastico ma per nulla molle, visionario, ma in continua crescita… Michele Bean”

Mi consigliò di conoscere un uomo in cui riponeva profonda stima e rispetto, Franco Dalla Rosa.  Mi disse: Lui mi ha formato. Una buona parte della mia conoscenza di base è la sua.”  Ho seguito il consiglio.

Franco Dalla Rosa, uno di quegli uomini che quando ti stringono la mano lo fanno sul serio. Un uomo semplice dal volto buono e dalla lunga esperienza. In una vecchia Osteria di Treviso mi ha raccontato brevemente il suo percorso di vita. Nato ad Asolo da una famiglia contadina. Suo padre, che mi ha descritto con grandi parole d’ammirazione, è colui che gli ha trasmesso quell’amore per la terra che lo ha portato verso il settore dell’enologia. Dopo gli studi a Conegliano ha intrapreso la sua strada nel mondo del vino lavorando prima nella Cantina sociale di Asolo, per poi continuare nell’Azienda Cà Ronesca a Dolegna del Collio. Qui ha incontrato un giovane appassionato che iniziava a compiere i suoi primi passi nella viticoltura, Michele Bean.

Nel pomeriggio passato insieme si è discusso di tradizioni, di cultura del vino, e di termini abusati e impropri quali “bollicine” e “prosecchino” che, sminuendo il vino senza far cultura, favoriscono le produzioni industriali legate alla quantità e non alla qualità.

Franco ora è tornato a svolgere la sua attività di enotecnico ad Asolo, perchè le radici lo hanno chiamato, perchè quest’uomo è parte integrante di questa terra.  Ha un progetto: recuperare un vitigno a bacca rossa quasi estinto in cui crede. Ma questa è un’altra storia…

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