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Lo zucchero di cocco può essere un’alternativa allo zucchero comune?

La questione è: lo zucchero – qualunque esso sia – fa male alla salute? La risposta è sì! Detto questo, io non sono per le privazioni in assoluto, ma per i limiti agli eccessi. Che il saccarosio – lo zucchero che abitualmente usiamo – sia nocivo alla salute, è appurato da tempo. Sia quello estratto dalla barbabietola, che quello dalla canna da zucchero: cambia solo il colore. Naturalmente non mi riferisco solo al cucchiaino che mettiamo nella tazzina, ma a tutto quello che viene aggiunto nelle varie preparazioni alimentari.

E allora? Come fare per addolcire i nostri alimenti? La scelta giusta sarebbe quella di disabituarci pian piano ai sapori dolci, evitando così la ‘trappola dello zucchero.’ In pratica, quel circuito vizioso che si crea dopo il consumo di un cibo ricco di zucchero, o meglio, di saccarosio (glucosio e fruttosio) che provoca il desiderio di altro zucchero. Una sorta di dipendenza. Fatta questa premessa, vi parlerò di un dolcificante naturale che ha qualche lato positivo in più rispetto al comune zucchero. Ovviamente, visto che ha molte calorie, va comunque consumato con moderazione.

Ebbene, lo zucchero di cocco si ricava dal fiore della palma da cocco, che una volta inciso, emette una linfa zuccherina. Da questo succo, una volta scaldato e fatto evaporare, si ottiene un composto granuloso dal colore dorato e dal retrogusto caramellato. Un procedimento antico e naturale che non richiede l’aggiunta di additivi. Ma non solo… grazie al suo contenuto di sostanze nutritive e al basso indice glicemico (l’indice che misura quanto un alimento innalza il livello di glucosio nel sangue), è decisamente più interessante del comune zucchero.

  • Fornisce naturalmente vitamine B1, B2, B3, B6, C, polifenoli e antiossidanti. 
  • Contiene ferro, zinco, calcio e potassio.
  • Contiene l’inulina, una fibra che permette una più lenta assimilazione degli zuccheri. 
  • Non contiene conservanti.
  • Non contiene glutine.
  • Non è sbiancato.
  • E’ molto calorico. 
In conclusione, direi che lo zucchero di cocco – se usato a piccole dosi – può essere un’alternativa allo zucchero comune. Resta il fatto che se si ha voglia di dolcezza, la frutta – fresca o secca che sia – è senza dubbio la scelta migliore!



Siamo certi di saper leggere un’etichetta?

Saper leggere un’etichetta è importante, certo, ma non è sempre facile. Tanto per dire che qualche settimana fa ne ho trovata una così dettagliata, che più che chiarirmi le idee me le ha confuse. Nessuna polemica, per carità! Ben vengano le descrizioni a garanzia dell’origine degli alimenti dettate dalle nuove norme sulla tracciabilità. I dubbi a cui mi riferisco sono relativi alla comprensione del significato dei numerosi additivi alimentari evidenziati con sigle alfanumeriche. Tutte informazioni obbligatorie – mi ha prontamente dichiarato l’esercente – vista la mia perplessità nel leggerle. Ebbene, certamente l’impegno va apprezzato, ma quanto a chiarezza per il consumatore mi sa che c’è ancora molto da fare! 

Entro in merito mostrandovi l’etichetta in questione. Le indicazioni sono relative agli ingredienti e agli additivi di una confezione di pasta ripiena. Proviamo a leggerli insieme.

Be’, sugli ingredienti nulla da chiarire, direi piuttosto di ripassare il significato del termine additivi: quelle sostanze aggiunte intenzionalmente agli alimenti per conservarli preservandoli da contaminazioni microbiche, colorarli o dolcificarli. Lo scopo è di migliorarne l’aspetto e il sapore. Si possono identificare da un numero preceduto dalla lettera E, con la specifica della relativa funzione. I più diffusi sono gli antiossidanti, i conservanti, gli aromatizzanti, i coloranti, gli edulcoranti e gli addensanti. Ma ce ne sono molti altri, innocui e meno innocui. Comunque sia, per tranquillità di tutti, esiste un ente predisposto alla valutazione della loro sicurezza: l’EFSA, European Food Safety Authority.

Ma torniamo alla mia etichetta. Dunque, ecco gli additivi aggiunti.

  • Antiossidante E301: ascorbato di sodio. Il sale sodico dell’acido ascorbico E300 usato per evitare l’imbrunimento e l’irrancidimento degli alimenti.
  • Antiossidante E316: eritorbato di sodio, prodotto sinteticamente. Rallenta l’ossidazione dell’alimento.
  • Conservanti: E252 nitrito di sodio – E252 nitrato di potassio. Due sostanze che oltre a conservare aggiungono sapore alle carni. A questo proposito va sottolineato che un consumo eccessivo di questi additivi può essere pericoloso per la salute.
  • Esaltatore di sapidità E621: glutammato monosodico. Una sostanza utilizzata per la capacità di esaltare il gusto di un cibo intensificandone il sapore.
  • Correttori di acidità: E262 acetato di sodio – E331 citrato di sodio. La loro funzione è quella di prolungare la durata dei cibi.

Tutto chiaro? Sicuramente un po’ di più dopo aver ricercato il significato di ciascun additivo presente nella pasta ripiena in questione. A questo scopo, un ‘bugiardino degli additivi’ con le relative funzioni e gli effetti collaterali, potrebbe aiutare i consumatori verso una scelta più consapevole. Perché a dirla tutta, alcune sostanze se aggiunte in eccesso possono essere causa di allergie.

In conclusione cosa resta da dire… forse solo che per quanto mi riguarda, più leggo additivi aggiunti in etichetta, e più mi passa la voglia di acquistare un alimento. Tanto per dire che la scelta dei cibi freschi e selezionati è senza dubbio la scelta migliore!




Non buttare quel cibo… non è scaduto!

Data di scadenza e Termine Minimo di Conservazione: due indicazioni ben diverse.

Non buttare quel cibo… non è scaduto! Una frase che mi ritrovo a ripetere spesso. Sì, perché la facilità con la quale si butta il cibo è purtroppo un’abitudine assai diffusa. La causa è spesso imputabile ad un’errata interpretazione del significato della data di scadenza, ben diversa dal Termine Minimo di Conservazione, detto anche TMC.

Iniziamo col chiarire il significato di queste due indicazioni.

  • TMC – Termine Minimo di Conservazione

Il TMC indica fino a quando un prodotto – in condizioni adeguate di conservazione – mantiene inalterate le proprietà organolettiche che lo contraddistinguono. Sui cibi viene indicato con la dicitura: ‘da consumarsi preferibilmente entro il…’  Superata tale data, l’alimento è ancora commestibile, infatti può essere consumato senza alcun rischio per la salute.

  • Data di scadenza

La data di scadenza, a differenza, indica il giorno esatto entro il quale un alimento può essere inderogabilmente consumato. Sui cibi viene indicata con la dicitura: ‘da consumarsi entro il…’ 

Due indicazioni ben differenti, che se mal interpretate, portano ad un inevitabile spreco di cibo.  Ovviamente, se si preferisce per motivi propri non consumare un alimento con una data di TMC superata, se integro, si può tranquillamente donarlo per fini sociali. Sul nostro territorio ci sono organizzazioni che coordinano il recupero e la redistribuzione delle eccedenze alimentari. Una di queste è il Banco Alimentare (presente in ogni regione d’Italia).

La sezione di Como, ad esempio, con circa quaranta volontari e qualche furgoncino, raccoglie e distribuisce oltre trecento tonnellate di cibo all’anno, aiutando più di duemilasettecento persone attraverso ventisei strutture di carità. Quotidianamente recupera eccedenze dai panifici, dalle mense aziendali, dai supermercati e dalle scuole. Un’attività che richiede logiche e coordinamento.

Legge Gadda

In tema di spreco di cibo, ma non solo, il 14 settembre 2016 è entrata in vigore la Legge Gadda 166/2016. Una legge autonoma (che non dipende da altre leggi) che ridà valore ai prodotti in eccedenza e che ha a cuore la fiscalità, riferita alle agevolazioni fiscali spettanti a chi dona. Uno dei suoi obiettivi primari punta a “favorire il recupero e la donazione delle eccedenze alimentari a fini di solidarietà sociale, destinandole in via prioritaria all’utilizzo umano e a contribuire alla limitazione degli impatti negativi sull’ambiente e sulle risorse naturali, mediante azioni volte a ridurre la produzione di rifiuti e a promuovere il riuso e il riciclo al fine di estendere il ciclo di vita dei prodotti.” Art. 1 Legge Gadda.

Come dice Marco Lucchini – Segretario Generale Fondazione Banco Alimentare Onlus – il bene va fatto bene.

Per info > Legge Gadda

Ph credit www.bancoalimentare.it




C’è voglia di dolcezza… ma soprattutto di buon cioccolato.

Salon Du Chocolat – Milano

Devo ammettere che non mi aspettavo che in una domenica piovosa di metà Febbraio, cosi tanta gente partecipasse al Salon Du Chocolat, la prima edizione della manifestazione dedicata al cioccolato, svoltasi a Milano il 13 14 e 15 Febbraio scorso. Nonostante un biglietto d’ingresso di 15 euro, il grande afflusso di persone presenti ha dimostrato ancora una volta l’interesse per questa produzione, scelta sempre più con attenzione e ricercatezza.

Insieme ad una cara amica, un medico chirurgo che pone il giusto equilibrio tra salute cibo e piacere, ho addolcito la mia domenica seguendo i percorsi sensoriali, tra l’altro molto affollati, che per ben tre giorni hanno visto ancora una volta protagonista il cioccolato di qualità. Eh sì, nonostante se ne dica, gli italiani sono sempre più informati e critici nei loro acquisti. Certamente un dato positivo, che permette di contrastare chi opera a sfavore delle buone produzioni.

Sono ormai molti i mezzi che ci permettono di conoscere ciò che mettiamo a tavola. Sta a noi decidere se diventare consumatori informati e consapevoli. Parlare con i produttori durante gli eventi e seguire i percorsi guidati all’assaggio, sono certamente percorsi utili per garantirci la qualità dei nostri acquisti. Personalmente, ogni volta che ne ho l’occasione, non mi faccio mancare entrambe le cose.

A questo proposito, al Salon du Chocolat, insieme alla mia cara Jose, ho seguito la degustazione “Back to School” a cura della Compagnia del Cioccolato. Un’associazione no-profit costituita da un gruppo di amici che dal 1995 con laboratori, assaggi e visite guidate, si pone l’obiettivo di promuovere la cultura del cioccolato. Un prodotto ricavato dai semi dell’albero del cacao, pianta originaria della zona situata tra il Sud del Messico e il Guatemala.

Qui di seguito qualche consiglio per gustarlo al meglio e per valutarne la qualità nell’assaggio. Tenete presente che la molteplicità di cioccolati esistenti richiede molte esperienze sensoriali. Più se ne fanno e più si acquisiscono capacità degustative.

Sono principalmente quattro i parametri per valutare la qualità del cioccolato.

  • Rotondità : In questa fase il cioccolato va fatto sciogliere in bocca senza fretta. Così facendo il suo sapore evolve col passare dei minuti. Se si scioglie bene ed è cremoso si ha un indice di buona rotondità.
  • Aromaticità : Questo parametro è relativo alla parte aromatica. Più aromi si avvertono e più il cioccolato risulta elegante, complesso e strutturato.
  • Equilibrio gustativo : Un equilibrio determinato dal buon rapporto tra dolcezza e amaro, cioè tra zucchero e massa di cacao. Se un cioccolato è squilibrato un elemento prevarica l’altro.
  • Persistenza : Il cioccolato di buona qualità ha una persistenza che può durare fino a 15 minuti.

Concludo con una curiosità. Lo sapete quando è stata prodotta la prima barretta di cioccolato?

Ebbene, il merito va a Francis Fry della Fry & Sons di Bristol, che nel 1847 aggiunse alla miscela di cacao e zucchero il burro di cacao al posto dell’acqua. Fu allora che nacque il primo cioccolato solido chiamato per l’occasione Chocolat délicieux à manger. Da allora fu tutto un susseguirsi di emozionanti sperimentazioni sensoriali, che a tutt’oggi appagano i nostri sensi.

Fonte: Compagnia del cioccolato – “Cioccolato. Nuove armonie” Di Rosalba Gioffrè




“Ma che pizza!” Ora ho capito il perché.

I numeri della Lombardia agricola, altro che pizza!

Qualche giorno fa, gustandomi una buona pizza, mi sono chiesta come mai spesso si usa dire “ma che pizza!” per riferirsi a qualcosa di noioso. Dopo aver fatto qualche ricerca sul web, ho trovato alcune interessanti spiegazioni. Ci sono persone che attribuiscono il senso di noia al fatto che la pizza è piatta, mentre altre associano questo modo di dire alle scatole contenenti le bobine dei film, che nell’ambiente cinematografico vengono per l’appunto informalmente chiamate pizze, come per dire: “Che scatole!”

Continuando la mia ricerca, ho trovato una versione più autorevole proveniente dall’Accademia Pizzaioli di Gruaro, in provincia di Venezia. Secondo loro questo detto popolare deriva dal fatto che la pizza a volte risulta difficile da digerire, causando gonfiore e molta sete. Le cause possono essere imputate ad una lievitazione troppo breve o all’impiego di ingredienti di scarsa qualità. Ecco spiegato il perché.

Come ho scritto tempo fa in un articolo: non c’è ‪‎pizza‬‬ senza buone ‪materie prime‬‬. Non ci sono buone materie prime senza sostegno all’‪‎agricoltura‬‬. Siamo in Italia, paese che vanta grandi produzioni agroalimentari di qualità. Ogni regione ha le sue. La pizza può essere una grande interprete. Visto che vivo in Lombardia, la prima regione agricola d’Italia, oggi vi darò qualche dato su cui riflettere.

Regione Lombardia

  • 1.300.000 ettari di suolo agricolo
  • 54.000 aziende agricole
  • 1.500 aziende agrituristiche
  • 200 fattorie didattiche
  • 33 consorzi di tutela
  • 31 prodotti con marchio DOP e IGP (273 complessivi in Italia)

DOP – La Denominazione di Origine Protetta è riconosciuta ai prodotti agroalimentari in cui tutte le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione vengono realizzate in un’area geografica delimitata e con un processo produttivo conforme a un disciplinare.

IGP – L’Indicazione Geografica Protetta viene attribuita ai prodotti agroalimentari la cui origine deve fare riferimento a uno specifico ambito territoriale. A differenza della DOP, è sufficiente che anche solo una fase del processo produttivo avvenga nell’area geografica determinata.

  • 22 Vini DOC, 5 DOCG e 15 IGT

DOC – Denominazione di Origine Controllata, il marchio attribuito ai vini prodotti in una determinata zona, realizzati utilizzando materie prime locali e metodi di lavorazione tradizionali.

DOCG – Denominazione di Origine Controllata e Garantita, riconosciuta ai vini DOC di pregio e di particolare qualità.

IGT – Indicazione Geografica Tipica, riconosciuta ai vini prodotti in un’area determinata più ampia rispetto a quella dei vini DOC.

  • 248 Prodotti Tradizionali

In ogni regione italiana esiste un elenco di prodotti tradizionali che seguono metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura adottati da almeno 25 anni.

  • 12 Strade dei Vini e dei Sapori tutelate dalla Federazione Strade di Lombardia, che aiutano i visitatori nei loro percorsi di gusto e di scoperta storica, artistica e paesaggistica della regione

• Strada dei Sapori delle Valli Varesine www.stradasaporivallivaresine.it
• Strada del Vino e dei Sapori della Valcalepio www.valcalepio.org
• Strada dei Vini e dei sapori di Valtellina www.stradavinivaltellina.com
• Strada del Vino Franciacorta www.stradadelfranciacorta.it
• Strada del Vino Colli dei Longobardi www.stradadelvinocollideilongobardi.it
• Strada dei Vini e dei Sapori del Garda www.stradadeivini.it
• Strada dei Vini e dei Sapori Mantovani www.mantovastrada.it
• Strada del Riso e dei Risotti Mantovani www.stradadelrisomantovano.it
• Strada del Tartufo Mantovano www.stradadeltartufo.org
• Strada del Gusto Cremonese nella Terra di Stradivari www.stradadelgustocremonese.it
• Strada del Vino San Colombano e dei Sapori Lodigiani info@stradasaporilodigiani.it
• Strada dei Vini e dei Sapori dell’Oltrepò Pavese www.oltrepopavese.com

Numeri che la dicono lunga.  Altro che pizza!

Dati: MiPAAF Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali aggiornati a Giugno 2015
Fonti: www.buonalombardia.it    www.viniesaporidilombardia.it   www.regionelombardia.it




I Mirtilli, piccoli frutti con grandi proprietà benefiche

Agricoltura sociale

I mirtilli, quei piccoli frutti che tutti conosciamo e che spesso troviamo nei boschi. Forse è per questo che da sempre mi attirano e che mi hanno portato a visitare la società agricola Unicorno, che da qualche anno li coltiva.

Ho conosciuto Azzurra, la titolare, durante una manifestazione in cui presentava il suo succo concentrato, o meglio, il suo nettare di mirtilli composto da ben 75 % di questi piccoli frutti di prima scelta non trattati. Nascono sulla collina di Villa Sommi Picenardi, una dimora storica nel cuore della Brianza, immersa in uno dei cento parchi più belli d’Italia.

Come sempre, presi i giusti contatti, mi sono accordata per una visita che mi ha permesso con la giusta tranquillità e con i miei tempi, di vedere le piante e di conoscere meglio il loro luogo d’origine. A guidarmi Azzurra Livraghi Sommi Picenardi, l’ideatrice di questo progetto che, dopo essersi occupata di un allevamento di cavalli, è diventata un’imprenditrice agricola.

Il suo desiderio di far nascere dalla collina, un tempo dedicata alla viticoltura, una coltivazione diversa, ma che soprattutto la vincolasse solo per un periodo dell’anno, l’ha portata a scegliere questo tipo di produzione, sia pur limitata ma di qualità: poco meno di 3.000 bottiglie di Nettare della Vita da 250 grammi.

Per la lavorazione e il confezionamento della frutta si è poi affidata alla Cooperativa Oasi Onlus di Guanzate, un esempio di Agricoltura Sociale per dare opportunità lavorative a persone svantaggiate, con particolare attenzione alle persone disabili. Citando le loro parole – ogni uomo può portare molti frutti – semplicemente operando nell’ambito agricolo ed ambientale.

I mirtilli sono piccoli frutti, ma con grandi proprietà benefiche per la nostra salute.

  • Contengono sali minerali e una discreta quantità di vitamina A e C.
  • Hanno proprietà antibatteriche naturali.
  • Favoriscono la salute degli occhi.
  • Rallentano l’invecchiamento cellulare.
  • Rafforzano i vasi sanguigni, quindi sono consigliati nei disturbi circolatori e in caso di fragilità capillare.
  • Sono antiossidanti.

Pianta di Mirtilli

Unicorno Società Agricola Semplice
Azzurra Livraghi Sommi Picenardi
azzurra@unicorno.biz
Via Sommi Picenardi, 8
Olgiate Molgora (LC)




Vademecum estivo per il benessere delle gambe

Raramente mi fermo… viaggio, visito, cerco, insomma passo da lunghe passeggiate in comode scarpe da walking, a tacchi vertiginosi che mi slanciano dandomi un tocco di femminilità in più. Le nostre gambe ci sostengono, ma soprattutto nella stagione estiva, a causa del caldo e della poca attenzione al loro benessere, si gonfiano, costringendoci a rivedere alcuni nostri comportamenti che non favoriscono la loro salute.

Oggi tocca a me, si, perché forse qualche sforzo in più l’ho fatto, al punto da dover rallentare i miei ritmi e rivedere alcune mie abitudini. E’ per questo motivo che condividerò con voi i buoni consigli che mi ha suggerito la Dott.ssa Dr.ssa Federica FlendaFederica Flenda, medico chirurgo Specialista in Chirurgia Vascolare e Angiologia.

  • Che cosa possiamo fare durante la stagione calda per il benessere delle nostre gambe?

Cinzia, innanzitutto non solo è consigliabile ma è necessaria una visita angiologica, perché si sottintende una patologia venosa. Al di fuori di questo si possono seguire alcuni piccoli accorgimenti. L’edema (gonfiore) degli arti inferiori è uno dei vari sintomi dell’ insufficienza venosa e del linfedema, entrambe con andamento cronico. Inoltre è una manifestazione di altre patologie sistemiche (trombosi venosa profonda e superficiale, cardiopatia, insufficienza renale…).

  • Da che cosa è causato il gonfiore ai piedi e alle gambe che si verifica soprattutto in estate?

Il gonfiore alle estremità (piedi e gambe), è dovuto al fatto che l’asfalto caldo surriscalda la pianta del piede in cui è situato un agglomerato di vene che formano la cosiddetta pompa venosa, o secondo cuore del nostro corpo. Quando camminiamo la pressione del piede spreme queste vene dando una spinta al sangue verso l’alto. Più fa caldo e più le vene si dilatano, con conseguente alterazione della permeabilità della parete venosa e del ristagno di liquidi al di fuori dei vasi.

  • Parliamo di alimentazione…

Il controllo dell’alimentazione durante l’estate è fondamentale. Bisognerebbe preferire frutta (specialmente frutta rossa, ricca di flavonoidi, sostanze che fortificano le pareti dei vasi, e vitamina C, potente antiossidante) e verdura. Diminuire il consumo dei carboidrati (che richiamano acqua nei tessuti), poca carne e tanto pesce. Attenzione al peso, il sovrappeso non aiuta, più chili si portano appresso maggiore sarà il gonfiore alle gambe.

  • Sono donna di tacchi alti o di scarpe basse, in entrambi i casi, poco amici delle gambe…

In effetti d’estate si usano moltissimo sandali e ballerine piattissime. Purtroppo questo tipo di calzature, così come i tacchi maggiori di 5 cm, favoriscono l’insorgenza dell’edema: non permettono infatti alla sopracitata pompa venosa di agire correttamente nella sua totalità. Durante il giorno è consigliabile una calzatura con tacco 3-4 cm per l’orario lavorativo (8-10 ore), la sera si può usare un tacco 12, tenendo presente però che quando si scenderà dai trampoli le caviglie saranno gonfiette….

  • A proposito di gambe e abbronzatura…

E’ meglio evitare di prendere il sole nelle ore più calde, dalle 13.00 alle 17.00: maggior calore, maggior vasodilatazione, maggior edema di gamba. In spiaggia mai coprire le gambe con asciugamano, pareo o altro. Questo aumenterebbe il calore agli arti. Il sole si può prendere con moderazione, alternando il sole ad un po’ d’ombra e utilizzando un solare con SPF 50 +

  • Per alleviare il fastidio dovuto al gonfiore è utile l’uso del ghiaccio?

Doccia sulle gambeMettere il ghiaccio sopra o sotto il piede non serve a nulla. Non stiamo trattando un gonfiore post-traumatico localizzato ma un disturbo diffuso: il ghiaccio dapprima vasocostringe, poi, terminata l’applicazione, subentra una vasodilatazione importante che peggiorerebbe il gonfiore da stasi. Utili, invece, sono le docciature fredde: sedute sul bordo della vasca o in piedi nella doccia, partendo dal piede fino al ginocchio per circa 3-5 minuti.

  • Attività sportiva, indispensabile per la mente e per il fisico. Qual è la più indicata?

L’esercizio fisico non deve mancare mai, il nuoto sarebbe l’attività sportiva migliore, perché le gambe lavorano in scarico, altrimenti una camminata a passo svelto per un’ora al giorno senza fermarsi a guardare le vetrine è un ottimo esercizio con grandi benefici. La corsa, salti, step, peggiorano la situazione. In palestra, ma questo vale in ogni stagione, evitare sauna, bagno turco, idromassaggi troppo caldi perché costituiscono una fonte di calore localizzato, amplificando il problema. Un bagno con un chilo di sale grosso in acqua tiepida, per 20-30 minuti, alleggerisce il gonfiore. Attenzione però che un bagno in acqua troppo calda, per così tanto tempo, potrebbe abbassare la pressione.

Siamo in estate, è tempo di vacanze. Il consiglio è di camminare in acqua di mare: sgonfia le gambe. Il sale del mare, per una legge fisica, richiama acqua dai tessuti. L’acqua passa da una soluzione meno concentrata ad una più concentrata, dal corpo nel mare…

Dr.ssa Federica Flenda
federicaflenda@gmail.com




Il Pane quotidiano consigliato da Simona Lauri

Il pane, alimento buono ed essenziale che sa di casa e di tradizione, un’ottima fonte di amido e di proteine. Non per niente si suol dire: “Buono come il pane.” Nonostante sia un prodotto che ha accompagnato l’uomo nella storia da millenni, negli ultimi anni sembra essere stato rivalutato. Si è tornato a consumare pane artigianale di qualità prodotto con farine di grani antichi e leguminose. Pane per tutti i gusti! Si, perché ogni città italiana vanta produzioni diverse per forme e sapori.

Oggi per la scelta del mio pane quotidiano chiedo consiglio a Simona Lauri, panificatore, tecnologa alimentare, consulente tecnico e formatore di arte bianca. Numerose pubblicazioni tecniche su diverse testate del settore, foodjournalist nonché Direttore Responsabile delle testata giornalistica mensile on line Quotidie Magazine.

  • Simona, inizio col porti una domanda sul lievito madre, un prodotto che esiste da sempre, ma che negli ultimi anni ha avuto un’eco particolare. Siamo certi che il consumatore sappia realmente che cosa sia?

La produzione della madre o lievito di pasta acida naturale ha la storia del pane stesso, circa 5000 anni e forse più. Da secoli e secoli si è sempre fatto il pane con la madre, solo che attualmente, per chissà quale moda o interesse, si sta cercando di farlo passare per l’innovazione e futuro del settore. Rappresenta le nostre tradizioni da millenni. Ora, a mio parere, non vi è un’adeguata informazione scientifica in proposito, e molto spesso la disinformazione genera terreno molto fertile per una falsa verità scientifica. Una su tutte, la convinzione che nella madre non vi siano cellule di Saccharomyces cerevisiae o blastomicete naturale o conosciuto ai più come lievito di birra/compresso/industriale.
Studi e pubblicazioni scientifiche in proposito lo hanno smentito a più parti, in quanto il Saccharomyces cerevisiae è un eucariota sporigeno ubiquitario per cui le sue spore sono presenti nell’aria, attrezzature, locali in cui si lavorano impasti.

Non viene materialmente pesato, ma naturalmente le sue spore vanno a contaminare l’impasto di farina e acqua. All’interno trovano le condizioni ideali di sviluppo, generano la forma vegetativae, nuove cellule cresceranno e si duplicheranno. E’ chiaro che non rappresenta la coltura dominante perché i batteri lattici domineranno, ma è comunque presente in un rapporto mediamente di 100 cellule di batteri lattici e 1 di lievito Saccharomyces cerevisiae. Saccharomyces cerevisiae è un lievito naturale per cui molto spesso si gioca e si specula su questo termine facendo credere che si tratti di madre; a tal proposito la dicitura “prodotto a lievitazione naturale” vale lecitamente sia che si usi la madre sia lievito di birra Saccharomyces cerevisiae.

  • Sono cresciuta a lievito di birra, o meglio, mi piaceva talmente che lo mangiavo così, nudo e crudo. Oramai, citandolo, sembra quasi di riferirsi ad un prodotto di second’ordine…

E’ vero, si è scatenata da circa due anni una battaglia mediatica di fasulla e ingiustificata informazione scientifica contro il Saccharomyces cerevisiae o lievito di birra. Ci si dimentica molto spesso che questo blastomicete ascomicete eucariota è utilizzato a scopo terapeutico e ha importantissimi vantaggi nutrizionali. Chiaramente come in tutte le cose non è tanto l’uso quanto l’abuso che si è fatto, e si continua a fare contribuendo a pubblicare ovunque sui mass media consigli di ricette per realizzare il pane a livello casalingo con dosi che MAI e ripeto MAI nessun panificatore, pizzaiolo artigiano professionista serio utilizza. Nessuno, quando legge una ricetta, si pone la domanda: “Quanto ne sto utilizzando?” Se si prestasse maggior attenzione a quello che si legge e si pubblica, si vedrebbe che molte ricette consigliano di realizzare pane, pizze, focacce a livello casalingo con una percentuale di lievito di birra oltre il 5,0% sulla farina (50 g per chilo).  Ricordo a tutti che queste sono assurdità tecniche impressionanti e fuori da ogni limite.

Tanto per rendere l’idea i pizzaioli per esempio lavorano con 0.1 – 0.5% (1,0 – 5,0 g per chilo di farina) sulla farina e i panificatori, quando lavorano con il metodo diretto 3.5 % (35,0 g per chilo). Nella lavorazione indiretta, massimo 1.0%. (10,0 g per chilo) se ce lo mettono e se non lavorano (la maggior parte delle volte) solo con biga. Perché a livello casalingo si deve lavorare con il 5,0%? Chi mi dice che non potrebbe essere questo uno dei fattori scatenanti delle improvvise allergie/intolleranze al Saccharomyces cerevisiae degli ultimi anni? Si accusano i professionisti, ma non potrebbe invece essere una scorretta informazione scientifica degli ultimi anni che, con il megafono dei mezzi di comunicazione, continua a propagare scorrettezze tecniche impressionanti?

Simona Lauri

  • Parliamo di farina, o meglio, di farine di grani antichi e leguminose. Hai qualche consiglio a tal proposito per una scelta consapevole?

Grani antichi e leguminose sono due concetti completamenti differenti non solo da un punto di vista nutrizionale, ma prettamente botanico e di tecnologia di panificazione. Prima di tutto quasi tutti gli sfarinati provenienti dalle leguminose non contengono glutine, per cui in panificazione vanno lavorati con metodiche particolari; mentre i grani antichi rappresentano varietà di frumento duro e tenero che per decenni non sono stati più lavorati per problematiche di allettamento, resa produttiva per ettaro, scarse caratteristiche di panificabilità ecc. dimenticandosi troppo presto che questi grani sono sempre esistiti, da millenni, sul territorio italiano prima ancora dell’importazione, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, della varietà canadese nota al mondo per il nome della zona di produzione: Manitoba.

Si è arrivati a modificare geneticamente, a incrociare varietà differenti, a trattare con radiazioni per nanizzare le piante, ottenere linee omozigote, aumentare le caratteristiche di panificabilità, le rese produttive, diminuire l’apparato radicale delle piante ecc. Tutto questo ha però portato ad ottenere, tra l’altro, varietà con elevata presenza della sequenza tossica aminoacidica PSQQ responsabile di molte allergie e/o intolleranze, celiachia compresa, a utilizzare concimi azotati a discapito di varietà ricche naturalmente di sali minerali, antiossidanti naturali, biologiche e con un contenuto proteico più equilibrato, più digeribili, ecc.

Giusto per fare qualche nome di varietà antiche autoctone di frumento tenero: Gentil Rosso, Gentil Bianco, Solina, Verna, Maiorca, Mentana, ecc. Il frumento duro include varietà come: Senatore Capelli, Saragolla, Tuminia, Bidi, Russello ecc., senza dimenticare il capostipite per eccellenza il Triticummonococcumsspmonococcum (farro piccolo) Sono comunque varietà con un W molto basso inferiore a 100, ma comunque panificabili in purezza. E’ chiaro che quando si panifica con questo “ORO” italiano è un controsenso pensare di tagliarlo con le attuali farine; deve necessariamente essere lavorato in purezza.

  • Se ti dicessi – ma che pizza! – tu che farina mi consiglieresti?

Prima di tutto tengo a precisare che non c’è assolutamente una farina per il pane e una per la pizza come molti vogliono far credere. La scelta per un acquisto consapevole sarà solo ed unicamente in base alla metodica di lavoro adottata. Le farine, oltre alla classificazione merceologica disciplinata dal DPR 187/2001, sono identificate (non è una classificazione ufficiale!) in base alla loro caratteristiche reologiche: forza, tenacità, estensibilità, elasticità ecc. In base ai valori di forza (W) si stabilisce una scala di valori che va da quelle definite deboli (W<150) a quelle utilizzate per lunghe lavorazioni e /o maturazione (W>380).

In linea di massima, per un impasto per pizza realizzato con metodica indiretta e maturazione minimo di 24 ore, consiglierei una farina con W>300, per una lavorazione operata con metodo diretto lungo 280<W<310, mentre, per lavorazioni indirette e maturazione oltre le 24 ore,  350<W<380. Personalmente lavoro quasi sempre con una farina Tipo 1 sia per il pane sia per le pizze, e quando possibile con sfarinati interi.

  • Il Pane, un prodotto antico, ma che si è evoluto nella sua essenza negli ultimi anni. Secondo te c’è ancora qualcosa da scoprire?

C’è ancora un mondo infinito da scoprire. E’ vero è cambiato in questi ultimi anni il concetto di pane. Una volta, per mio nonno, bastava farlo bene ogni mattina con le bighe, la madre; la pasta di riporto ora invece non basta più. Oggi bisogna garantire la corretta informazione tecnica, nutrizionale, salutare perché la disinformazione è tanta e il consumatore ha il diritto di ricevere le informazioni tecniche corrette direttamente dagli operatori del settore. Le trasmissioni televisive, in qualche caso, contribuiscono a generare informazione scientifica scorretta, fatta dissento dire e luoghi comuni. Questo si ripercuote sul consumatore che ha la volontà e il diritto di conoscere. Da parte dei professionisti occorre garantire la qualità (sapore, profumo, gusto shelf life., conoscenze tecniche approfondite ecc.) che si ottiene con lavorazioni lunghe e non con l’utilizzo di semilavorati, mix e lavorazioni dirette.

C’è un mondo da scoprire ancora e a livello scientifico si sta studiando nuove innovazioni nel settore gluten free, functional food, utilizzo di proteasi prodotte dai batteri latticiper ridurre le sequenze amminoacidiche tossiche per i celiaci, ecc. A livello artigianale la prima grandissima innovazione è stata fatta nel 2010 con l’utilizzo da parte mia della farina di quinoa nel pane a tal punto da creare QUITE, non capito assolutamente da nessuno, panificatori compresi. Ora è il simbolo della panificazione italiana con Quinoa nei Convegni organizzati dal Consolato peruviano. Questo per dire che 5 anni fa l’innovazione era la quinoa ora è la canapa, la moringa, il teff, chia, ecc. Personalmente ritengo estremamente importante incentivare soprattutto l’utilizzo di quello che l’Italia produce da secoli; mi riferisco ai grani autoctoni antichi tra i quali proprio il Triticumturgidumturannicum che nessuno conosce come tale, ma con il nome del marchio commerciale americano. In questo caso, la corretta comunicazione e informazione scientifica può fare la vera grande differenza.




Produzioni garantite DOP e IGP. E’ chiara per tutti la differenza?

Negli ultimi tempi guardo poco la televisione, direi quasi per nulla. A parte poche eccezioni la qualità dei programmi mi annoia proprio per la pochezza dei contenuti. A volte mi capita di farlo condizionata da chi ha gusti diversi, persone che si meravigliano dalla mia quasi totale mancanza di conoscenza di trasmissioni note ai più. Comunque sia capisco anche che, visti i tempi che corrono, la gente abbia bisogno di ‘leggerezza’ di contenuti, per distrarsi dimenticando per qualche ora le difficoltà quotidiane.

Nonostante ciò seguo volentieri i programmi che diffondono conoscenza, permettendo di apprezzare la ricchezza culturale ed enogastronomica del nostro bel paese. Ci sono poi le inchieste, che, da una parte mi fanno arrabbiare, e dall’altra aprono gli occhi ai consumatori che come me si definiscono informati.

Entriamo in merito. Qualche settimana fa, durante una puntata di Report su Rai 3, si è parlato di DOP e IGP. Nulla di nuovo certo, ma credo che molti ancora non sappiano che l’Identificazione Geografica Protetta ponga un vincolo sul territorio in cui avviene la trasformazione, ma non sulle materie prime.

Ma come… sembra quasi un paradosso?! In pratica se mi capita di visitare un paese italiano ed acquistare una tipicità del posto garantita IGP, ho si la garanzia che venga prodotta in quel territorio, ma non sempre ho la certezza che venga fatta con materie prime originarie di quel luogo.  La normativa infatti in questo senso non è vincolante. Eh no! Così non mi piace!

Ebbene, fatta questa premessa faccio continuare all’esperta, Eugenia Bergamaschi, Presidente Confagricoltura di Modena.

Cinzia, le cose stanno così: per le IGP fa fede il luogo di produzione e la ricetta, mentre la materia prima può venire anche da altre località. Per questo motivo potrai ben capire che le IGP da sempre sono state un problema per i produttori agricoli.

Accanto alle IGP esistono le DOP che tutelano i prodotti Italiani. Il prodotto DOP deve essere fatto in Italia con materia prima Italiana, come ad esempio il Prosciutto di Parma, il Prosciutto di San Daniele e il Prosciutto di Modena. Prodotti DOP perché fatti obbligatoriamente con cosce di suini nati, allevati, macellati e stagionati in Italia, secondo un disciplinare severo al quale si devono attenere gli allevatori, i macellatori e gli stagionatori.

Per verificare che ciò avvenga esiste un organo di controllo che si chiama IPQ: Istituto Parma Qualità. Il suo compito è di controllare la filiera della DOP del Prosciutto di Parma e del Prosciutto di Modena. Il Prosciutto di San Daniele invece è controllato dall’INEQ: Istituto Nord Est Qualità.

Le DOP sono veri e propri prodotti di nicchia che, per la loro produzione, seguono un disciplinare rigoroso che impone regole molto rigide. Il costo di produzione e il prezzo finale al consumatore è più alto proprio per questo.

Riprendo la parola.

Con Eugenia, che conosco personalmente e ringrazio, abbiamo parlato a lungo al telefono sulla questione. La cosa che mi interessava far capire, è la differenza tra DOP e IGP, che vi assicuro molti non conoscono ancora. Lo scopo è sempre lo stesso: formare il consumatore affinché la sua scelta sia sempre più informata e consapevole.

Dopo i nostri discorsi e gli scambi di opinione siamo giunte alla stessa conclusione: in Italia ci sono troppi marchi, troppi consorzi, troppa disgregazione, e poca ‘comunicazione ben fatta’ delle produzioni e dei territori. Elementi critici che non fanno bene all’economia del nostro paese, agli agricoltori che puntano alla qualità, e agli stessi consumatori, spesso confusi nei loro acquisti. Ce ne sarebbero di cose da dire, ma soprattutto da fare…




“Siete certi di… sapere cuocere un uovo?”

Che domanda banale direte, eppure non lo è affatto, anche perché ve la sta rivolgendo Luigi Veronelli. Mi spiego…

Ho iniziato questo nuovo anno a Zagarolo, un borgo antico di Roma sui Castelli Romani. Un paese con un intreccio di viuzze, vecchie case e botteghe storiche, con personaggi e tipicità tutte da scoprire. Se passate da quelle parti andate a visitare il Museo del giocattolo a Palazzo Rospigliosi, è il più grande d’Italia. Viviamo in una nazione che, con le sue molte diversità, è un pullulare di ricchezze artistiche, territoriali ed enogastronomiche tanto amate dagli stranieri, ma ahimè, trascurate dagli italiani.

E’ in questi giorni che ho conosciuto, sia pur brevemente, alcune persone, ora amici, che hanno accompagnato il mio inizio del 2015 in modo molto intenso ed emozionante. Grazie a loro e alle belle giornate di sole, oltre a passeggiare sui campi circostanti raccogliendo finocchietto selvatico e godendo dei panorami, mi sono dedicata all’appassionante lettura di una fantastica raccolta di vecchie edizioni della Domenica del Corriere.

In particolare mi sono soffermata sulle rubriche dell’epoca di Luigi Veronelli. L’anno è il 1965. Ricordo che poco tempo fa, con un amico cuoco, si discuteva sulle incertezze di molte persone su alcune preparazioni a volte scontate. Forse è per questo motivo che, sfogliando le pagine, la mia attenzione è stata catturata dal titolo di questo articolo.

Veronelli raccontava che un suo zio prete, Don Rinaldo, veniva burlato dalla sua famiglia perché sosteneva che nessuno sapeva cuocere le uova al guscio, chiamate anche alla coque, come le monache di Corso Monforte. Io me le preparo spesso, uno spuntino veloce che condisco con un po’ di sale e un buon olio extra vergine di oliva. Come diceva Veronelli – a saperlo preparare è una grande specialità!

L'uovo al guscioAnzitutto munitevi di una casseruola adatta, in cui si possa introdurre un cestello (di quelli usati per le fritture) che non impedisca la chiusura del recipiente con un coperchio. Nella scelta della casseruola, ricordate che le uova devono, letteralmente, affogare nell’acqua. Mettete dunque la casseruola con abbondante acqua salata (per un sorprendente processo di osmosi ciò influisce sulla buona riuscita) sul fuoco, e portatela a forte ebollizione.

Ritirate la casseruola dal fuoco, immergetevi il cestello in cui si sono adagiate le uova, coprite col coperchio e contate tre minuti. E’ importante che l’acqua sia abbondante perché la sua temperatura, introducendo il cestello, non scenda troppo, ma anche la cottura avvenga fuori dal fuoco, a temperatura decrescente. Luigi Veronelli Domenica del Corriere – Maggio 1965

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