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Due ‘donne col cappello’ in Pizzeria da… Francesco e Salvatore Salvo!

Dove eravamo rimasti con le ‘donne col cappello’?! Ah si, eravamo rimasti che io e Giulia Nekorkina, dopo il tour in Costiera Amalfitana, ci dirigevamo a Napoli con lo sguardo incantato rivolto al Vesuvio…

Si, perché finalmente avevo organizzato, con l’aiuto dell’amico Giustino Catalano, un incontro a San Giorgio a Cremano in provincia di Napoli, con Francesco e Salvatore Salvo, pizzaioli da tre generazioni.

Due donne col cappello, una lombardo-veneta e una romano-moscovita, in giro per Napoli a dare colore alla città!

Se penso alle espressioni degli addetti della pizzeria al nostro arrivo, mi scappa ancora da ridere! Chissà cosa avranno pensato?! Bè, in tutti i casi lo stupore è durato proprio poco, perché, appena entrate, hanno prevalso i sorrisi e le strette di mano! 😉

Conoscevo già Francesco e Salvatore Salvo grazie ad alcuni nostri scambi di mail, e, attraverso i racconti che Giustino mi faceva di loro. Ricordo le parole che mi ha detto la stessa mattina che li ho incontrati…  “Cinzia, vedrai che due ‘marcantoni’ che ti troverai davanti!” Bè, devo ammettere che aveva proprio ragione! 🙂

Due donne col cappello e... Salvatore e Francesco Salvo

Due donne col cappello e… Salvatore e Francesco Salvo

A parte gli scherzi, posso dire con certezza che dopo averli ascoltati, dopo i molti sorrisi, dopo le mie piccole provocazioni con l’unico scopo di far si, che la persona, quella vera, si riveli, mi sono complimentata per il lavoro che stanno svolgendo.

Mentre Giulia approfondiva le tecniche degli impasti con Salvatore, io, con un orecchio ascoltavo loro, e con l’altro chiacchieravo con Francesco sui loro prodotti, sui loro progetti e su quanto stanno facendo sul territorio. Ovviamente oltre che ad ascoltare, ci siamo sacrificate anche ad assaggiare! Ahhh che sacrifici in ‘sta vita, direbbe il mio amico Martin!

Nei loro discorsi ho apprezzato molto sentire parole come semplicità, entusiasmo, orgoglio, passione, rispetto per la cultura del territorio e per la tradizione familiare. Ma non solo, perché la cosa che mi ha fatto più piacere, è scoprire che sulla loro Carta delle Pizze promuovono alcune piccole realtà agricole di cui utilizzano i prodotti. E io, quando sento parlare di promozione di aziende agricole, mi illumino!

Altra loro collaborazione è quella con gli chef stellati di varie regioni italiane che, ‘interpretando’ la pizza in modo personale, hanno dato vita alle ‘pizze stellate’. Parlo di quella di Antonio Cannavacciuolo del Ristorante Villa Crespi, di Nino Di Costanzo del Ristorante Il Mosaico, di Gennaro Esposito del Ristorante Torre del Saraceno, a cui si sono aggiunti recentemente Chicco Cerea del Ristorante Da Vittorio, Davide Oldani del Ristorante D’O, e Mauro Uliassi del Ristorante Uliassi.

Dopo averli finalmente conosciuti, dopo averli guardati negli occhi, ora si, ora posso dirlo, ho visto in loro la voglia di fare bene… la voglia di fare insieme. In questo momento così difficile per l’Italia le sinergie sono di fondamentale importanza. 

In questa storia avrei potuto scrivere di impasti e di pizza, ma io scrivo partendo dalla conoscenza delle Persone. Attraverso le mie visite riesco a capire meglio il loro lavoro e i loro prodotti, scrivere di loro, quando lo ritengo opportuno, mi permette di farle conoscere.

Uscendo quel giorno, ho salutato degli amici. Io vivo così le persone, non avrebbe altro senso per me, soprattutto per  l’amore che metto in quello che faccio.

Li ho salutati con queste parole: “Ragazzi, state andando alla grande, voi potete molto per questo territorio, per le sue produzioni e per la sua gente. Piedi ben saldi per terra, sempre, non ascoltate i venti cattivi, la cosa importante è che andiate avanti per la vostra strada, con coerenza, seguendo il vostro credo. Tutto il resto, verrà da solo…

Questa è la filosofia che applico a questa mia seconda vita, una vita dalle molte emozioni…

 




Le ruote della vita, da calzolaio a ristoratore in un trullo di Martina Franca.

Peppino è solito dire… “Com dsc u cor toq”

Peppino, prima calzolaio e poi ristoratore. Tutto iniziò nel 1969 quando, ereditando un trullo poco distante dal centro di Martina Franca a Taranto, decise di intraprendere con sua moglie un’attività di ristorazione basata su piatti di cucina casalinga, tipici del territorio.

Il 3 giugno scorso hanno festeggiato cinquantasei anni di matrimonio.  Da questa unione sono nati tre figli, due dei quali collaborano con lui attivamente nel locale di famiglia, la ‘Trattoria delle Ruote’.

Ho conosciuto Giuseppe Ceci, Peppino, in una sera d’estate di poco tempo fa. Mi hanno portato degli amici dopo una passeggiata nella bella Martina Franca, cittadina elegante e ricca di storia nel cuore della Valle d’Itria. Il Prof. Piero Marinò la ricorda così:

“Qui mangi pane e barocco” intitolava nel giugno del ’97 la rivista ‘Bell’Italia’ a proposito del centro antico di Martina Franca. Fu il ceto dei galantuomini che, nella seconda metà del Settecento, decise di rendere  visibile la propria potenza economica avviando un processo di ristrutturazione e abbellimento delle vecchie case ‘a corte’ (piccole masseriole in paese), che costituivano le residenze dei signori.

Il paese si trasforma, come per incanto, in un autentico museo diffuso: portali barocchi e rococò, impreziositi da cartigli e cariatidi, capitelli  corinzi e piccoli  satiri, punteggiano le vie del paese. Panciuti ed eleganti balconi in ferro battuto occhieggiano dall’alto dei palazzi. Gli interni delle residenze vengono abbellite da affreschi nei saloni destinati all’accoglienza, ad incontri galanti, a piccoli concerti musicali.

Era giunta l’ora di cena, e la voglia di passare una serata in un locale tipico e ricco di storia ha fatto cadere la scelta su una Trattoria di quelle che piacciono a me, quelle con la T maiuscola, quelle dove l’atmosfera è calda e accogliente…

Con Peppino sono entrata subito in sintonia. Mentre lo ascoltavo nei suoi racconti guardavo l’espressione del suo viso tipica degli uomini vissuti con passione, tra lavoro e tanti sacrifici. A dire il vero qualcosa mi sono persa, ma solo perché il suo stretto parlare in tarantino non mi ha permesso di capire tutto.

Quella di Peppino è stata una vita di grande passione per la terra, per il cibo, ma anche per la storia. Quando ha capito che i miei interessi erano simili ai suoi, mi ha ‘letteralmente preso per mano’ conducendomi alla visita del suo museo. Una ricca collezione di reperti storici che mi hanno fatto perdere la cognizione del tempo fino a che, richiamata per la cena, ho raggiunto gli amici al tavolo. Quella sera farmi sedere è stato davvero faticoso…

Non solo Angelo, suo figlio, mi ha parlato di lui. Lo ha fatto anche un altro Angelo, in questo caso suo nipote.

Cinzia, zio Peppino è un uomo unico, un’ instancabile lavoratore vissuto all’insegna del sacrificio e del rispetto altrui.  La sua simpatia è contagiosa.  E’ un uomo umile che trasmette serenità, un buon esempio per tutti noi. Ho un ricordo di qualche estate fa , quando, nella trattoria dello zio Peppino andò in scena uno spettacolo stupendo, quanto inaspettato ed improvviso, uno dei ricordi più belli della mia vita.

Ero a cena, seduto ad un tavolo davanti al trullo con una coppia di miei amici musicisti veneti. In quell’atmosfera unica, con le cicale in sottofondo e sotto ad un cielo stellato, degustavamo  in allegria tutto ciò che di buono la dolce zia Graziella aveva preparato. I miei amici erano entusiasti e felici di aver scoperto la Puglia, sia per la cucina che per l’arte. Ad un tratto decisero di regalarci qualcosa per ricambiare. Chiesero una chitarra che noi trovammo nel giro di una mezz’ora e… ecco la magia! Iniziarono a suonare dando vita ad un concerto inaspettato.  Al tavolo cantavamo tutti, e pian pianino anche gli altri avventori si avvicinavano a noi fino a formare un solo coro di voci e di applausi.

Sotto quella luna tutto sembrava surreale…  Siamo andati avanti per ore, fino a notte fonda, perché nessuno voleva andar via, nessuno voleva rompere quell’incanto che la musica aveva creato. E’ un ricordo prezioso che ho vissuto in un luogo magico. I miei amici erano  il chitarrista Marco Anzovino e la cantante Marnit Calvi.

Anch’io non dimenticherò la sera passata li… Salutandomi Peppino mi ha detto: “Cinzia, a rumaste cuntente?” La mia risposta è stata un sorriso, e un deciso si!




Reinventarsi una vita a quarant’anni, da parrucchiere a chef, lui si chiama Dino, la sua Trattoria “La Colonna”

Qualche sera fa ho cenato in una trattoria a Milano, “La Colonna. Non ha un sito, anzi, l’unico sito che ha è quello reale. La cosa mi ha incuriosito. Siamo talmente abituati a viaggiare on line che a volte trascuriamo le cose concrete e tangibili… ma per fortuna, non sempre.

La cena curata da Dino, Chef de La Colonna, è stata organizzata da Francesca Lovatelli Caetani, Direttore Editoriale di WebSpotMagazine, e da Ivana Villa di web-spot.it. Hanno partecipato oltre a me, un gruppo di giornalisti e blogger. Monica Papagna di un biscottoalgiorno.com, Sara Milletti di l-appetito-vien-leggendo.com, Amelia Affronti freelance fashion designer, e un ospite a sorpresa con cui ho amabilmente discusso durante la serata, il giornalista Alessandro Aleotti, Presidente del Brera Calcio.

Appena arrivata, come è mia abitudine fare per conoscere l’ambiente in cui lavorano le persone che incontro, ho curiosato un pochino per il locale. Le atmosfere un po’ retrò a memoria del passato hanno attirato subito la mia attenzione.

Un vecchio megafono, un quadro con una dedica di Renato Rascel a ricordo di una cena li, e un angolo con una parete scritta a penna dai frequentatori della briscola del locale, mi hanno fatto sorridere. Poi, una volta chiamata all’ordine, ho raggiunto il gruppo.

Scesa al piano inferiore mi sono trovata davanti alla bella mise en place predisposta da Amelia Affronti, esperta di bon ton e docente di corsi dedicati all’allestimento della tavola. Un saluto, due chiacchiere, e poi a tavola. Mi era venuta decisamente fame.

Un particolare interessante riscontrabile leggendo il  menù de La Colonna, è che la proposta dei piatti è già legata ad un vino, sia come costo, che per l’abbinamento.

Dopo la cena, appena ha potuto, ho fatto sedere a fianco a me Dino, lo chef. Si era guadagnato da subito la mia simpatia, visto che al mio arrivo offrendomi un calice di vino, uno spumante, non aveva usato un termine ben noto per definire i vini mossi che proprio non sopporto.

Dino da ragazzo, nonostante la madre avesse una trattoria, si è diretto verso tutt’altro settore. Dopo aver interrotto gli studi all’ITIS, ha esercitato per molto tempo la professione di parrucchiere per signora.

Circa dieci anni fa la svolta con la decisione di diventare cuoco. Di giorno vendeva surgelati, e di sera  imparava a cucinare lavorando a fianco ad uno chef. Poi, con l’acquisizione del locale che a tutt’oggi gestisce, il compimento di un sogno. Mai pensare che è tardi per cambiare vita…  

Trattoria La Colonna in

Via S. Maria alla Porta, 10 – Milano

 




Il Gatto e la Volpe in un Cantuccio

Il gatto e la volpe direte !? In un Cantuccio poi !? Ma chi saranno mai ?

Ora vi spiego… Mi sto riferendo ad uno cuoco birichino, Mauro Elli Chef e Patron del Ristorante Il Cantuccio che, in accordo con Rocco Lettieri, ha organizzato una cena con tranello, o meglio, una cena didattica. Posso dirvi solo che, ridendo sotto i baffi che tra l’altro non hanno, i due bontemponi ce l’hanno proprio tirata…

“Il vino ha la straordinaria proprietà di poter cambiare intensità, profumi, aromi nell’arco di una serata solo modificandone la temperatura.” Mauro Elli

Ieri sera ho partecipato ad una cena didattica in compagnia di Elio Ghisalberti, Rocco Lettieri, Albero Schieppati, Roberta Schira, Giacomo Mojoli e naturalmente Mauro Elli. Tutti esperti comunicatori di enogastronomia, loro almeno, io più che esperta assaggio e ascolto, quando riesco a stare zitta ovviamente.

Rocco Lettieri ha introdotto la serata spiegandoci che avremmo degustato al buio cinque vini rossi toscani, in cinque calici con forme differenti, a temperature diverse, ovviamente abbinati ai piatti della cucina di Mauro. Noi avremmo dovuto indovinare il vino, l’annata e l’abbinamento migliore, scrivendo delle note di degustazione ad ogni portata.

Una cosa che proprio detesto fare, è parlare o scrivere di vino in modo tecnico. Mi annoia proprio, ovviamente con tutto il rispetto per chi lo fa. Il vino per me è ben altro, è storia , è territorio, è filosofia di vita. Ricordo che, poco tempo fa, assaggiando un vino di Giorgio Grai, lui stesso mi ha chiesto di raccontarglielo. La mia risposta è stata: “Io il vino lo bevo, lascio agli esperti il compito di raccontarlo”. Per intenderci, per esperti mi riferisco a chi lo produce; mi piace ascoltare da loro come nasce un vino.

Ho fatto questa premessa per farvi capire quanto poco entusiasmo avevo all’inizio della cena. Quando poi Rocco ha raccomandato a tutti di prestare attenzione e di parlare poco mi son detta: “Uh signur, che serata che mi aspetta!” Invece no! Devo confessarvi che mi sono proprio divertita! Perché…? Un po’ per il folclore che faccio al mio solito provocando forse un pochino, ma solo per conoscere meglio le persone, e poi, perché Mauro portava i vini ad una temperatura ingannevole, diciamo così.  Io con le mani li scaldavo, perché il vino rosso, quello buono, ad una temperatura troppo bassa, proprio non mi piace!

Ma il trucco era proprio qui, far assaggiare “lo stesso vino” a temperature completamente diverse. Cambia, e come se cambia, così tanto da sembrare un vino diverso. Chi ha vinto? Nessuno e tutti, anzi, ha vinto il vino! Un fantastico rosso toscano, l’Ardito di Riccardo Baracchi, annata 2006, uvaggio 50% cabernet sauvignon e 50 % syrah.

E’ stata una serata didattica molto istruttiva… ma anche molto appetitosa!

Un grazie particolare al gatto e alla volpe!

 




“La Famiglia Serandrei… una storia Veneziana di terra e di mare”

La ricetta : “Bigoli in salsa con vellututata di Porri e Pane fritto”

Come diceva William Shakespeare, c’è una storia nella vita di tutti gli uomini, e ascoltarle è la mia passione.  Qualche sera fa, seduta accanto a Kim e a Gianni Serandrei, in occasione del 50’ anniversario del Ristorante “La Caravella”,  ho passato piacevolmente una serata ascoltando la storia di una famiglia Veneziana in una città che da sempre mi riempie gli occhi, il cuore e l’anima…

“Senza ricordi non siamo nulla. Così è per i popoli. Gli italiani sono la somma delle esperienze fatte nella Storia. Se si perdono, si ritorna ad essere il volgo confuso che voce non ha. Così è per il vino e per l’enogastronomia. La cucina povera che diviene ricchezza, il vino dei contadini che diventa DOC. Anche questo è Storia. Le nostre radici hanno fatto nascere il popolo Italiano, con le sue tradizioni, con la sua creatività, con le sue eccellenze conosciute nel mondo”. Giorgio Ferrari, Professore di Storia Contemporanea

Era l’anno 1905 quando Zoe Lustig di origine Ungherese, e Ugo Serandrei, nato a Pisa ma trasferitosi a Venezia, si sposarono. Presero in affitto una piccola pensione di otto stanze che chiamarono “Internazionale” e iniziarono  l’attività alberghiera.

Ugo, una volta tornato dalla grande guerra, insieme al figlio Renzo si dedicò all’albergo ampliandolo e migliorandolo. Nel 1908 nasceva l’Hotel Saturnia & International. Saturnia, antico nome virgiliano dell’Italia.

Situato nel cuore della città, tra Piazza San Marco e le Gallerie dell’Accademia, l’hotel era il punto ideale d’incontro per ritornare, dopo la guerra, a quella voglia di normalità che permettesse di riparlare d’arte e di cultura. Sotto la guida di Renzo Serandrei, nacque così il Ciro’s bar, famoso locale dell’epoca annesso all’hotel, che ebbe l’onore di accogliere personaggi quali Sartre e Simone de Beauvoir.

Nel 1963 un’ulteriore svolta. Il Ciro’s bar venne trasformato da Renzo, grande appassionato di cucina, nel Ristorante “La Caravella” chiamata così per gli interni che riportavano alla memoria i caratteristici ambienti di un antico veliero.

La creatività di Renzo, uomo in continua ricerca, fece si che il ristorante si aggiudicasse per ben venticinque anni consecutivi la stella Michelin. Cinquant’anni di storia e di tradizione: 1963 – 2013.

La continuità nella conduzione familiare ha fatto si che, dopo la morte di Renzo, seguisse l’attività il figlio Alberto.  Dal 2012 l’hotel è gestito da Ugo Serandrei coadiuvato dai figli, quarta generazione della famiglia: Marianna, Gianni, Kim e Greta-Zoe.

Dal 2000 una nuova scommessa, l’Hotel Ca’ Pisani che, come Kim Serandrei mi ha raccontato, si ispira ai principi dei “Design Hotel” reinterpretando il gusto art déco in chiave contemporanea. Essendo un’appassionata di storia che recupera pezzi antichi qua e la, mi ha colpito come, con pazienza, hanno collezionato letti originali anni ’30 e ’40, tutti diversi tra loro.

Chiacchierando seduta a fianco a Kim ho potuto notare la sua capacità di “guardare oltre”. Non tutti la possiedono, è una capacità che si acquista attraversando le difficoltà… che dona ricchezza d’animo e sensibilità. Ad un tratto, mentre gli raccontavo la mia abitudine di raccogliere pietre e sassi a ricordo dei luoghi che visito, mi ha detto: “Cinzia indovina? Mia madre è geologa!”

Rossana Serandrei Barbero, una donna di terra in una città di mare. Le ho chiesto il perché della sua scelta di vita, e, conseguentemente ai suoi lunghi studi legati alle fondamenta di Venezia, mi sono aggiornata sullo stato di salute della città.

  • La mia scelta di vita è presto spiegata. Da adolescente ero innamorata pazza della montagna, delle rocce e, per estensione, dell’arrampicata. Mi sono iscritta a geologia perché volevo fare il geologo in Terra del Fuoco. Ho studiato per quarant’anni il sottosuolo di Venezia e posso affermare che la sua salute, compatibilmente con l’età, può essere definita buona.  Rossana Serandrei Barbero

Durante i nostri discorsi di terra e di mare, quella sera, festeggiando i cinquant’anni di storia de “La Caravella”, lo Chef Silvano Urban ci ha raccontato la sua cucina semplice e rispettosa della tradizione e delle materie prime di qualità.

Oggi si parla di cibo in molti modi: si passa dallo show food al food art, dal media food al concept food fino ad arrivare al food design. Secondo me è giunto il tempo di ritornare alle origini, ovvero ad una cucina in cui la ricerca si basa proprio sullo studio del prodotto, senza volgarità, senza eccessi e senza il disperato tentativo di spettacolizzare a tutti i costi.”

A conclusione di questa mia storia voglio riportare la ricetta del primo piatto scelto dallo Chef Silvano Urban, un piatto tipico della tradizione.

Bigoli in salsa, serviti tiepidi con vellutata di porri e pane fritto

 

Dosi per 4 persone

Ingredienti:

  • 200 g di cipolle;
  • mezzo bicchiere di olio d’oliva;
  • sale quanto basta;
  • 300 g di bigoli scuri (spaghetti integrali);
  • 75 g di acciughe sotto sale;
  • un pizzico di pepe;
  • briciole di pane.

Procedimento:

Sbucciate le cipolle e affettatele finemente. Poi, versate in una padella la metà dell’olio e unitevi le cipolle; fatele appassire a fuoco basso. Cuocete a recipiente coperto, per circa 15 minuti, bagnando le cipolle di tanto in tanto con un po’ d’acqua (non più di un bicchiere in tutto), mescolando il composto fino a che si saranno ridotte in poltiglia. Nel frattempo, mettete sul fuoco l’acqua per la cottura della pasta: appena bolle, salatela e buttate la pasta.

Quando le cipolle saranno cotte, aggiungete le acciughe precedentemente lavate, dissalate e diliscate; con una forchetta schiacciatele ripetutamente, fino ad ottenere una salsetta marrone. Quindi spegnete il fuoco e unite al sugo l’olio rimasto, mescolando. Scolate i bigoli, rovesciateli in una terrina, conditeli con il sugo preparato e del pane fritto sbriciolato.

Tagliate a rondelle 200 grammi di porro; fatelo appassire con un filo d’olio e poca acqua. Correggete il composto di sale e quando sarà cotto, frullate il tutto ottenendo una crema morbida, ma sostenuta, che andrà ad accompagnare la ricetta. Infine, completate il piatto con briciole di pane fritto e filo d’olio extra

L’aggiunta dell’ultimo ingrediente, ovvero i porri, ha l’obiettivo di attenuare il gusto forte delle acciughe. “E’ un piatto spiega lo stesso chef,  che non scende a compromessi con le moderne visioni culinarie”.




Storie di Donne coraggiose… “Vi presento Nadia Vincenzi”

 

Nadia Vincenzi, chef riminese titolare del Ristorante Da Nadia, una stella Michelin a Castrezzato, Brescia.

Le donne coraggiose, quelle che si rialzano, quelle che la vita nonostante tutto non riesce a piegare. Io le cerco e do loro la mano, perché conoscerle, è una continua lezione di vita.

Ho conosciuto Nadia grazie all’amico giornalista Elio Ghisalberti che, sapendo i miei gusti in fatto di persone, ha pensato bene di presentarmela.

La destinazione non proprio vicina a me è passata in secondo piano quando, alla mia domanda sul perché di quella scelta, la risposta è stata: “E’ una donna di quelle che piacciono a te, di quelle che hanno lottato, di quelle la cui storia è da ascoltare…”  Devo ammettere che ho anche pensato, visto la chiacchierona che sono: “Sarà mica una strategia di sopravvivenza alla serata ?!”  Ovviamente scherzo, primo perché tutto sommato dicono che son simpatica, e secondo, perché ascoltare Nadia è stata una vera esperienza… Mentre lei mi raccontava il suo percorso a volte avevo l’espressione triste, e a volte un po’ da romantica sognante quale sono…  In realtà, ho ascoltato una storia di vita e d’amore il cui lieto fine è avvenuto ben trentotto anni dopo…

Nadia Vincenzi nata a Rimini da genitori romagnoli dovette trasferirsi a dieci anni in Molise con la famiglia  per esigenze lavorative. Furono quelli i suoi anni più felici, quelli dei ricordi migliori, quando dopo la scuola il tempo passava veloce nel ristorante di famiglia. E’ li con sua madre e suo padre che ha imparato i primi rudimenti dell’arte del cucinare che ancora oggi la richiamano a quegli insegnamenti.

Gli anni passavano… Anni spensierati dai ritmi allegri che portarono Nadia, grazie alla sua bellezza, ad aggiudicarsi il titolo di Miss Molise. Nel ’67, a vent’anni, si sposò ed ebbe due figli. Dopo un periodo apparentemente sereno le cose cambiarono e dovette separarsi. Aveva ventisei anni, due figli, e doveva ricominciare… Con tutte le sue forze decise di aprire un piccolo ristorante vicino a Termoli forte dell’esperienza familiare acquisita. Il lavoro tanto, l’impegno e i sacrifici costanti. L’unico svago che si concedeva era quello di qualche serata in sala da ballo quando era possibile. Fu li che conobbe Valerio, quel bellissimo ragazzo, come Nadia me lo ha descritto raccontandomi, che frequentò per circa un anno.

Un giorno Valerio non si presentò ad un appuntamento e da li scomparve dalla sua vita.  Era delusa e risentita, non capiva, ma doveva andare avanti, e così fece… Se ne andò al nord e conobbe un uomo. Nacquero altri due figli, ma anche questa volta la sorte non fu con lei. Rimase nuovamente sola… Per tirare avanti lavorò in un supermercato per quattro anni, fino agli anni ’90, quando nuovamente si rimise in gioco aprendo un piccolo ristorante, “Al Desco”, a San Giuseppe frazione di Rovato, Brescia. L’avventura qui continuò fino al ’93 per poi proseguire con una nuova attività a Sarnico. Nel 2000 l’impegno investito riconobbe a Nadia la stella Michelin. Ma un evento fermò nuovamente la sua vita… Dei dolori improvvisi al ginocchio la costrinsero a sottoporsi ad un intervento chirurgico che la bloccò dall’attività per sei mesi. Si ritrovò nella condizione di dover vendere il ristorante… Dopo la riabilitazione la voglia di tornare in Molise dove aveva vissuto i momenti più felici della sua vita era tanta, ma una nuova opportunità le si propose, la proposta dell’acquisizione di un locale in piena campagna a Castrezzato, Brescia. Iniziò così la nuova avventura con il ristorante “Da Nadia” a cui nel 2011 venne riconosciuta la stella Michelin.

Nel durante dell’attività una sua collaboratrice la formò all’utilizzo dei social network. Per vincere la solitudine Nadia si mise alla ricerca delle vecchie amicizie del Molise. Una sera presa dai ricordi digitò il nome di quel suo amore scomparso improvvisamente tanti anni prima, Valerio. Il nome comparve… Le sembrava inverosimile ma lui anche se solo con un’immagine era la, davanti a lei. Decise di scrivergli per capire perché improvvisamente tanti anni prima si era allontanato. Valerio rispose… L’emozione nel leggerlo indescrivibile… La verità era che i suoi genitori, quando avevano saputo che frequentava una donna separata con due figli, gli avevano impedito di frequentarla. Iniziarono a risentirsi il 17 Maggio del 2012, poi, nei successivi venti giorni un susseguirsi continuo al telefono, fino al 10 Giugno scorso quando Valerio dal Molise è tornato da Nadia, da quell’amore proibito trentotto anni prima. Ora vivono e collaborano felicemente insieme.

Nadia concludendo il racconto della sua storia mi ha detto: “Cinzia, ora non piango più la notte, non sono più sola, lui finalmente è tornata da me!”  La realtà è che non bisogna mai arrendersi, bisogna sempre lasciare una porta aperta alla speranza. Nadia ne è la riprova… Una donna che ha ritrovato il suo amore perso ben dopo trentotto anni… Una donna che vive le soddisfazioni di una vita di impegno e sacrifici esprimendo esperienza e creatività nella sua cucina semplice che richiama i piatti di una volta. Una cucina ittica-romagnola dell’Adriatico.




Un ritorno a Venezia di… gusto!

Venezia, città unica al mondo… C’è chi la ama e c’è chi la odia. Per quanto mi riguarda è stato amore a prima vista, perché Venezia ti riempie gli occhi… Dovunque guardi vedi arte, storia e bellezza. Come dice Friedrich Nietzsche, se dovessi cercare una parola che sostituisce musica, potrei pensare soltanto a Venezia.

I percorsi in questa città magica sono tanti… Percorsi di storia, d’arte, di cultura. In questa mia ultima visita però, ho voluto privilegiare in particolare un percorso… un percorso di gusto!

Detto questo, come dico io… pronti, via!

Dopo la mia consueta passeggiata  a piedi per le calle di Venezia, sono andata a trovare un amico conosciuto a Milano in una cena, Alberto Fol, Executive Chef presso il Ristorante La Cusina dell’Holtel The Westin Europa & Regina. Questo storico hotel affacciato sul Canal Grande, nasce dall’unione di cinque antichi palazzi del diciottesimo e diciannovesimo secolo.

Alberto è nato a Treviso, ma grazie all’albergo dei genitori nelle dolomiti bellunesi, è cresciuto respirando aria di montagna. Tutto è iniziato da li, la passione per la cucina, per la natura, per i produttori che seguono pratiche agricole sostenibili, per i gusti antichi, per la tradizione…

Come per tutti noi, ci sono persone nella nostra memoria che hanno influenzato le nostre scelte. Suo nonno, portandolo da piccolo nell’orto, lo ha avvicinato al vero sapore degli ortaggi appena colti. Io stessa ho ricordi analoghi e indimenticabili, come il sapore dei pomodori appena colti in campagna da mia nonna a Treviso, rossi e carnosi… ricordi indelebili impressi nella memoria che ci riportano al mondo contadino, alla Terra.

Insieme al suo secondo, il timido e introverso Chef Riccardo Porracin,  ho passato una piacevole serata degustando i piatti deliziosi da lui preparati, e conoscendo l’uomo appassionato che pian piano le mie provocazioni scherzose hanno fatto emergere.  Davanti a noi un suggestivo scenario della Basilica di Santa Maria della Salute illuminata dalla luna.

Ma non è finita qui, perché il mio percorso di gusto è continuato il giorno dopo all’Antinoo’s Lounge & Restaurant del Centurion Palace Hotel.  Il suo nome è riconducibile ad una moneta di Antinoo trovata durante i lavori che hanno portato all’apertura dell’hotel affacciato sul Canal Grande. Al mio arrivo mi ha colpito la facciata dallo spiccato stile gotico veneziano, entrando l’accogliente giardino con edera e piante di bambù, e all’ingresso della hall un lampadario di cristallo a forma di gondola! Spettacolare!

Ad accogliermi la gentile Micaela Scapin dell’Ufficio Stampa, e Massimo Livan l’Executive Chef.  Mi ritornavano in mente le parole di Riccardo Porracin il giorno precedente: “Cinzia, Massimo è un gran chiacchierone, alla tua pari direi, se non di più!Bella sfida mi son detta, sfida che ho vinto! 😉 Ma per farmi stare zitta Massimo ha trovato facilmente il modo, il suo eccellente menù degustativo ha fatto si che la mia concentrazione fosse dedicata alla creatività dei suoi piatti.

Come dico spesso, mettersi a tavola e gustare cibo e vino, è un’autentica celebrazione dei prodotti della Terra, guidata da chi cucina grazie all’esperienza e alla sapienza maturata.

 Sono convinto che un grande piatto si possa creare anche utilizzando soltanto due ingredienti. La bravura di uno chef si misura anche nella capacità di osare, sperimentare, ingegnarsi. Massimo Livan

 




Street Food… “fare un passo indietro per andare avanti”

Street Food, tradotto letteralmente cibo da strada. Nei tempi passati un’abitudine comune, all’estero consuetudine, recentemente in Italia rivalutato con l’uso di una terminologia inglese. Diciamo la verità, chiamandolo così da un senso di modernità che altrimenti  non avrebbe, ma il succo è che trattasi di cibo tipico della tradizione locale che si consuma passeggiando o su una panchina,  in modo più economico, vivendo di più il territorio.

Solo qualche giorno fa ne parlavo con Beniamino Nespor, proprietario insieme  ad Eugenio Roncoroni  del  Ristorante  e  Burger Bar di Milano,  “Al Mercato.

Due giovani ventinovenni che ho conosciuto grazie a Francesco Ottaviani, un medico con cui spesso scambio opinioni ed esperienze. Conoscendomi mi ha detto: “Devi andare! Quei ragazzi hanno quella genialità che ami ricercare nelle persone!” Qualcuno la chiama pazzia, io vi dico solo che diffido della normalità. Amo le menti creative con quel briciolo di follia che permette di osare.

Al mio arrivo mi ha colpito la parte esterna del locale, quasi anonima direi… Nessuna insegna del ristorante, solo qualche sedia all’esterno e l’indicazione del Burger Bar. Poi, entrando, l’atmosfera è cambiata…  L’ambiente piccolo e accogliente e la scelta di rendere visibile il lavoro in cucina mi ha messo subito a mio agio.  Mi ha accolto il gentile Beniamino con il quale ho iniziato subito a chiacchierare…

  • Beniamino, quando Francesco mi ha parlato di voi e del vostro locale con tanto entusiasmo, sapendo la vostra giovane età, mi sono da subito incuriosita. Com’è nata la vostra amicizia e successivamente la vostra collaborazione?

Ci siamo incontrati per la prima volta alle medie, ma poi ci siamo persi di vista.  Tre anni fa un nostro amico comune ci ha rimesso in contatto perché sapeva delle nostre intenzioni di aprire un ristorante.  Dopo esserci frequentati di nuovo per un po’, abbiamo deciso di portare avanti il progetto “Al Mercato”.

  • “Al Mercato”, perché la scelta di questo nome?

E’ stato il primo nome che ci ha messo subito d’accordo, e comunque rispecchiava la nostra idea di creare un punto tipo mercato, dove si vede quello che si mangia mentre viene cotto. Una cosa molto diffusa nei mercati asiatici.

  • Nessuna insegna all’esterno segnala la presenza del vostro ristorante. Che cosa  motiva questa scelta?

Le insegne non sono necessarie, ci piace così, solo con il nostro logo in neon rosso.  Non abbiamo mai fatto pubblicità di alcun tipo perchè contiamo molto di più sul passaparola.  Trovo anche che dia una bella sensazione passare davanti a questo luogo anonimo dall’esterno, vedendo questa grande cucina a vista, le persone che mangiano, quelle in coda…

  • Mi racconti che tipo di cucina fate?

Dalla parte ristorante facciamo cucina internazionale di base italiana.  Ci piace mischiare ingredienti provenienti da tutto il mondo, idee che ci vengono pensando ai nostri viaggi, ma utilizzando delle basi e delle tecniche da cucina italiana.   Cerchiamo anche di mantenere il concetto molto italiano di antipasto, primo, e secondo.  Nell’hamburger bar ci divertiamo a proporre hamburger e altri street food dal mondo, ovviamente utilizzando le tecniche da ristorante.  Questo ci da la possibilità di offrire sempre un prodotto di qualità.

  • “Street Food”, cosa vi ha spinto a seguire anche questa strada?

Lo street food è la passione di ogni foodie.  E noi, oltre che cuochi, siamo anche foodie.  Ci piace andare in giro a mangiare nelle peggiori bettole del mondo, mangiare per strada, in piedi,  cose a caso… Insomma, provare sempre nuove esperienze.  Lo street food è quello che fa comprendere come è fatto un paese.  L’esperienza di mangiare con le mani poi, è totalmente diversa da quella fatta usando le posate.

  • Beniamino, quando mi hai chiesto cosa volessi mangiare ti ho risposto: “Portami quello che mangeresti tu in questo momento”.  Bè, mi hai portato un mega panino rivelatosi buonissimo.  Detto così ovviamente non rende l’idea.  Me lo vuoi raccontare?

Hai mangiato il nostro burger fatto nella maniera preferita da me.  L’hamburger “Al Mercato” è un’interpretazione nostra del classico street food americano.

Usiamo la carne di un allevamento biologico, la tritiamo dalle 2 alle 6 volte al giorno, le verdure le prepariamo tutti i giorni, la marmellata di cipolle la facciamo noi, i cetrioli sott’aceto li facciamo noi, la salsa pure, e il pane lo abbiamo disegnato insieme al nostro panettiere…  Poi ci sono tutte le varie aggiunte per soddisfare ogni palato.

Chi vive senza follia, non è così saggio come crede.

François de La Rochefoucauld




L’Antica Focacceria San Francesco… un angolo di Sicilia coraggiosa a Milano

Qualche tempo fa davanti ad un calice di vino, si parlava con il mio amico Enzo di belle storie da raccontare, quelle che piacciono a me. Ad un tratto mi disse: Conosci l’Antica Focacceria San Francesco?

Mio malgrado dovetti ammettere di no…  Lui prontamente mi rispose che era una storia per me. Con Enzo ci si racconta spesso, lui sa bene quanto io mi appassioni alle persone che combattono per i propri ideali, per la propria libertà, per le proprie passioni! Ebbene, neanche a farlo apposta, qualche sera dopo mi capitò l’occasione per rimediare, e come dico io… pronti via!

La sala al mio ingresso era gremita di persone. Dopo i saluti preliminari mi guardai un po’ attorno fermando il mio sguardo sulle prelibatezze tipiche esposte. Notò il mio interesse Giovanni, gentile direttore di sala che si offrì di accompagnarmi nella visita del locale.  Inconsapevole a cosa andava incontro fu sottoposto alle mie consuete mille domande. Devo dire che riuscì a soddisfare quasi completamente la mia curiosità. Dico quasi, perché alcune le rivolsi direttamente al titolare, Vincenzo Conticello.

Gli chiesi il significato dell’emblema posto al centro dell’ingresso nella sede di Palermo. Mi spiegò che rappresentava un polmone, l’ingrediente cardine utilizzato per guarnire il pan focaccia, che diversamente da come lo intendiamo noi, trattassi di pane farcito che prende il nome di  “focaccia schietta o maritata”.  Fu inventata nel 1851 dall’antica focacceria “maritando” la focaccia schietta (ricotta, caciocavallo e strutto), con milza e polmone di vitello affettati.

Dovete sapere che l’Antica Focacceria San Francesco è nata nel quartiere “Calza” di Palermo, sede strategica degli affari mafiosi. Parliamo del secondo locale più antico d’Italia nato nel 1834.  Questa collocazione diede adito a minacce che negli anni furono disattese grazie alla determinata volontà della famiglia Conticello. La situazione cambiò quando le richieste del pizzo si concretizzarono formalmente nel 2005 attraverso un tentativo di estorsione. La fermezza nel non cedere al ricatto portò ad una denuncia e alla messa in esecuzione di un’operazione che si concluse con lo smantellamento dell’organizzazione malavitosa, e ad un processo per direttissima.

Normale conseguenza fu una vita controllata sotto scorta. Me ne resi conto quando scendendo nella mia visita al piano di sotto, mi sentii vigilata in modo a me inconsueto. Capii più tardi chiacchierando con Vincenzo, che per lui e per  la sua famiglia la vita era ormai cambiata. Mi venne spontaneo chiedergli se era mai stato tentato di arrendersi alle circostanze. Tirando fuori dalla tasca un proiettile mi rispose che non avrebbe mai tradito chi prima di lui ha combattuto per la libertà. L’Antica Focacceria San Francesco si è prefissata grandi sfide…  Per il 2015 prevede di aprire ben venticinque sedi in Europa e nel resto del mondo.

Io sostengo convinta che tradire i propri ideali è come tradire se stessi. Non è sempre facile percorrere il cammino più tortuoso,  ma una volta aperto il varco gli orizzonti cambiano, e le strade da percorrere si moltiplicano…

                  “Pagare una volta significa diventare schiavi per sempre”        

Cosi’ Vincenzo Conticello ha detto no al pizzo…




Un’eterna romantica all’Osteria senz’Oste

Sono un’eterna romantica, lo sarò sempre e nessun evento potrà mai cambiare il mio modo d’essere, ormai l’ho capito. Per alcuni vivo sulle nuvole, per altri vivo nel mondo dei sogni. Io sono così…

Ho fatto questa premessa per farvi capire il mio entusiasmo quando una sera con una persona andai a trovare Simone Toninato, uno chef ormai diventato un caro amico. Dovete sapere che da  un anno in qua il mio modo di pormi alle persone è molto cambiato.

La vita ci presenta ostacoli a volte insormontabili, ma se si riesce a scavalcarli si incomincia a vedere le cose con occhi diversi, ci si toglie quella patina che ci offusca la mente e che non ci permette di dare  il giusto peso alle nostre scelte.  Tutto diventa più leggero, e il solo parlare a cuore aperto con le persone diventa una vera e propria scoperta di vita. Io ora vivo così.

Treviso

Valdobbiadene

Con Simone incominciammo a chiacchierare raccontandoci le nostre storie. Dopo avere ascoltato alcuni stralci della mia vita mi disse che dovevo assolutamente andare in un’osteria: l’Osteria senz’Oste.

Già vi sento dire: “Simone avrà pensato che avevi bisogno di bere !” Ma noo vi dico io!  Quest’Osteria nel cuore della meravigliosa Valdobbiadene è un posto per romantici come me, il posto ideale per sognare ad occhi aperti!

Ma ora vi voglio raccontare… perché io ci sono andata sul serio!

Con il mio confetto bianco, la mia macchinina, una mattina poco tempo dopo partii in quella direzione. Giunta finalmente a Valdobbiadene non fu facile trovarla.  Dopo aver vagato su e giù per stradine impervie, godendomi però panorami mozzafiato, vidi un cartello con l’indicazione. Sospirando emozionata parcheggiai l’auto in appositi spazi, posti tra i filari dei vigneti.

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Il parcheggio tra i filari all’Osteria senz’Oste

Mentre passeggiavo scattavo qui e la foto per fermare le belle immagini che riempivano i miei occhi. Poi, vidi una piccola stradina che mi indicava la direzione, e pian piano salii.  Quando arrivai in cima rimasi a bocca aperta.

Ero sola davanti ad una tipica casa di campagna, con mazzi di pannocchie appese ai muri, erbe aromatiche nelle aiuole, e una vecchia porta di legno che dopo aver contemplato spalancai.

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L’Osteria senz’Oste

Entrando, la mia espressione era incantata davanti a un tipico focolare domestico contadino dei bei tempi. Tutto era perfettamente in ordine: il vasellame posto sulle mensole, i taglieri di legno appositamente predisposti per l’uso, e quant’altro servisse per rifocillarsi autonomamente.

Dopo essermi guardata un po’ in giro trovai le opportune indicazioni ben segnalate sul tavolo. Quindi, non avendo ancora pranzato, mi organizzai uno spuntino servendomi da sola come se fossi a casa.  Su ogni prodotto accuratamente conservato c’era l’indicazione del costo. Ovviamente, essendo nel cuore di Valdobbiadene, mi versai un calice di Prosecco.

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Ero in pace col mondo…

In quell’atmosfera d’altri tempi ero in pace col mondo. Ad un tratto entrò deciso un uomo dall’aspetto possente. Lo seguii con lo sguardo mentre lui, brontolando fra se e se sulla quotidianità delle faccende da sbrigare, era intento nell’accendere il fuoco del camino.

Non mi aveva degnato di uno sguardo,  forse per rispettare la mia intimità con quel luogo. Io lo guardai e gli dissi: “Bè, meno male che ha il suo da fare…” Attirai la sua attenzione, e  di scatto si girò guardandomi un po’ stranito. Non ricordo esattamente come avvenne, ma incominciò a raccontarmi un po’ della sua vita.

Era un circense nato a Berlino che, dopo la perdita della famiglia,  incontrò fortuitamente la persona ideatrice di questo progetto. Lo ascoltò, e accettò la proposta di seguirlo in Italia. Nonostante lo sguardo un po’ triste, mi disse che era felice di quella scelta. La pace di quel luogo gli aveva permesso di trovare la sua pace.

Così come arrivò se ne andò.  Lo seguii fino a quando lo vidi sparire all’esterno. Pensierosa mi scossi dai miei pensieri rendendomi conto che era giunto il momento di dover andare. Riposi tutto perfettamente in ordine come l’avevo trovato, e mi feci il conto da sola, mettendo i soldi in un piccolo salvadanaio predisposto appositamente per l’uso.

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Prima di uscire vidi  il  libro delle dediche e decisi di farne una anch’io. Questa mia venuta era la riprova del mio pensiero,  fermamente convinta che la gente Italiana, quella vera, è gente d’onore e di passione. Lo scrissi a chiare lettere, perché l’Osteria senz’Oste ne è orgogliosa testimonianza.

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