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Il senso di appartenenza ad una terra

Lorenzaga di Motta di Livenza, Treviso

C’è una terra a Treviso che mi ha salvato due volte. Una prima volta da bambina, e una seconda pochi anni fa. Ormai sento di appartenerle, comunque sia e comunque sarà, so che sono parte di essa. Appena posso torno da lei. L’emozione al mio arrivo la stessa, sempre, come la tristezza che mi assale alla partenza, quando devo lasciarla.

Una terra piena di ricordi…

Li rivivo passeggiando nelle vigne dell’Azienda Agricola Vecchio Olmo confinanti con la casa di famiglia dove ho passato i momenti più felici della mia infanzia.

Un vigneto di circa quindici ettari nella frazione di Lorenzaga di Motta di Livenza che la famiglia Berto, i proprietari, hanno chiamato così in onore di un vecchio olmo presente nella tenuta. Da oltre sessant’anni, dai capostipiti Maria e Pietro, e poi a seguire, dai figli Sergio e Mario, la famiglia Berto continua la  tradizione della coltivazione della vite e della produzione dei vini nel rispetto dell’ambiente. Raboso Trevigiano, Merlot, Malbech, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Refosco dal Penducolo Rosso, Pinot Bianco, Chardonnay, Verduzzo Trevigiano, Glera Prosecco, questi i loro vini.

Come avete letto, nelle loro produzioni c’è anche il Prosecco, e qui mi fermo un attimo per una riflessione.

Durante le mie ultime scorribande su e giù per il trevigiano si è discusso sia con produttori che con amici enologi di questo vino di antiche origini che, negli ultimi anni, gode di un particolare successo tra i consumatori. Questa tendenza favorevole non dovrebbe che farmi piacere. Peccato che ci sia il rischio, che ormai definirei certezza, del saccheggio alla terra trevigiana dei suoi vitigni storici vocati, espiantati e sostituiti con prosecco, prosecco e ancora prosecco. Ma attenzione, c’è prosecco e… Prosecco DOCG !  

Complice di questa situazione confusa il mercato condizionato dalla poca cultura che ahimè, chi dovrebbe, non trasmette a dovere.Vi cito solo un esempio. Poco tempo fa a Como in un ristorante che mi era stato consigliato, l’addetto alla sala nonché proprietario al mio ingresso ha esordito dicendomi: “Cominciamo con un prosecchino?”  La mia risposta secca è stata: “Cominciamo male !”  Ma vi pare il modo di presentare un Prosecco ?!  

A questo proposito approfitto per far intervenire l’amico Paolo Ianna che, partecipando attivamente alla manifestazione “Vino in Villa”,  ha avuto modo di approfondire l’argomento.

 

Paolo Ianna

Paolo Ianna

Ciao Cinzia,

A Vino in Villa abbiamo assaggiato un centinaio di Prosecco DOCG per la Guida ViniBuoni D’Italia; ne dobbiamo ancora assaggiare molti nei prossimi giorni.

La qualità, dall’avvento della DOCG dal 2010, è sempre più alta. Con l’introduzione della nuova opportunità della tipologia “Rive”,  l’orgoglio di avere un nome di prestigio per un proprio prodotto ha orientato in modo più che positivo l’impegno nel produrre con più attenzione e cura.

Potrei aggiungere che i produttori credono nella loro potenzialità, molto più che nel recente passato. Quindi, Prosecco di alto pregio la cui qualità aumenta di anno in anno.

Purtroppo si stanno espiantando vigneti che davano dei buonissimi vini rossi che, un mondo del vino orientato da guru, snob, e salottieri, non ha mai riconosciuto come tali.

Non me la sento di giudicare le scelte dei produttori che cercano solo di procurarsi fonti di reddito non legate alle bizze e ai capriccetti di qualche guida, che rilascia giudizi morali senza che vengano richiesti.

Spero di non essere stato troppo polemico.

 

Paolo non è stato affatto polemico, ha solo espresso una verità che condivido pienamente. Le nostre parole sono spinte dalla passione e dall’amore per il territorio nel senso più lato del termine. Un territorio con una zona di produzione storica ben definita, garante di qualità e di Superiorità.

Come ha sottolineato lui stesso, l’introduzione della tipologia “Rive” riservata agli spumanti, è pura espressione di territorialità essendo legata ad un prodotto proveniente da uve di un unico comune o frazione di esso. Questo termine nella parlata locale, indica vigneti situati in terre scoscese.

 




Vino cotto, mosto cotto o… tutti e due?

La ricetta: “Caldidolci al Vin Cot di Quistello”

Vino cotto o mosto cotto? Direi tutti e due, ma siamo sicuri di conoscere la differenza? Per fare un po’ di chiarezza mi  farò aiutare dai produttori.

Recentemente, dopo aver conosciuto meglio entrambi i prodotti, mi sono resa conto che non tutti ne conoscono le differenze. Ambedue ottime produzioni, diverse però sia per densità che per gli usi a cui sono destinate.

Partiamo innanzitutto dal presupposto che ilvino cotto del Picenoè un vero e proprio vino. E’ ottenuto dalla bollitura del mosto dei vitigni di Verdicchio, Trebbiano, Montepulciano e Sangiovese, e viene invecchiato in botti di legno di rovere. E’ un vino da dessert, utilizzato anche nella preparazione di dolci e per insaporire le carni. Oltretutto è un ottimo rimedio per curare tosse e raffreddore, e per chi come me, ama la medicina naturale, questo è già un ottimo motivo per parlarne.

Me lo ha fatto conoscere Emanuela Tiberi dell’Azienda Agricola David Tiberi di Loro Piceno, con la quale, durante una serata del girotondo enogastronomico “Per Tutti i Gusti” coordinato da Carlo Vischi, ho avuto modo di chiacchierare.

Passo ora al “vino cotto mantovano” che, nel termine dialettale, viene chiamato “vin cot”. L’ho conosciuto grazie alla cara Paola della Cantina Quistello di Mantova, prima su Twitter, e poi di persona a GourMarte, la manifestazione enogastronomica coordinata da Elio Ghisalberti.

La Cantina sociale di Quistello è una cooperativa costituita nel 1928 da un gruppo di viticoltori la cui produzione si estende lungo le rive del fiume Secchia. Un territorio ricco di antiche tradizioni viticole e gastronomiche che ben conosco e apprezzo per le mie origini paterne mantovane.

Dunque, qui ad aiutarmi a far chiarezza è il loro Presidente, che mi definisce il loro vino cotto non un vino, ma un mosto cotto; è usato come condimento per piatti di carne, per insalate, e anche per dolci.

Come stabilito da disciplinare di produzione del vin cot, la materia prima utilizzata è il mosto d’uva Lambrusco Grappello Ruberti, vitigno storico coltivato nella zona di produzione dell’IGP Quistello. E’ un prodotto con molta concentrazione di zuccheri d’uva e senza alcol.

In conclusione, tornando alla questione che ho posto inizialmente su: “vino cotto o mosto cotto?” direi proprio tutti e due. Utilizzerò il “Vin Cot di Quistello” nella preparazione di un dolce da loro stessi consigliato, e il “Vino Cotto del Piceno” come vino da dessert per accompagnarlo. 😉

“Caldidolci al Vin Cot di Quistello”

  • Ingredienti:

Un litro di latte, 3 bicchieri di farina di mais sottile, un pizzico di sale, zucchero qb, un pezzetto di burro, una manciata di uva passa, pinoli qb, un goccio di Vin Cot di Quistello.

  • Preparazione:

Preparare una polentina portando a ebollizione il latte mentre si aggiunge a pioggia la farina di mais e un pizzico di sale. Rimestare bene, fino a quando la farina sarà cotta. Aggiungete sempre mescolando, lo zucchero, un pezzetto di burro, un goccio di VinCot e per ultimi l’uva passa e i pinoli.

Con la polentina ottenuta formare tanti biscottini ovali e lasciarli riposare per qualche ora. Passateli poi al forno, facendo attenzione a non seccarli.

I “Caldidolci” come dice la parola stessa, vanno serviti caldi.




Il porfido che mi portò a Gattinara…

Ho conosciuto Paride Iaretti durante una cena a Milano, mentre, seduta a fianco a lui, ascoltavo le molte similitudini delle nostre vite. Quella sera mi ha regalato un sasso, un porfido proveniente dalla sua vigna.

Ve l’ho mai detto che ho la casa piena di pietre? Le raccolgo dovunque. Sono pezzi delle terre che visito e che spesso non vorrei lasciare. Averle vicino mi trasmette energia, mi riporta i ricordi alla mente, mi fa sentire meno lontana…  Avere tra le mani quel porfido mi ha permesso di avere il primo contatto con quella terra che mi ha chiamato alla sua conoscenza.

Paride Iaretti è nato a Gattinara il 1′ Luglio del 1970. Dopo aver frequentato le scuole dell’obbligo, si è diplomato all’Istituto Professionale Alberghiero di Varallo Sesia. Prima cuoco, poi salumiere, e poi… la sua origine contadina ha prevalso.

Mi ha raccontato come, alla fine del 1999, stanco di stare sotto ad una fila di neon in una catena di supermercati, ha deciso di cambiar vita. La notizia espressa quell’anno dal padre di vendere le vigne di famiglia, è stata la scintilla scatenante che  ha determinato la svolta della sua vita.

La “radice affiorante” di una vecchissima Vespolina

La sua passione per le vigne e per il territorio è atavica, essendo discendente da una famiglia contadina di lontane origini gattinaresi che ha sempre fatto vino. Solo il padre, Pietro, se ne è occupato per hobby coltivando circa mezzo ettaro di vigneto. Da li è partita la sua avventura, quando nel 1999, ha speso la sua liquidazione per acquistare un piccolo trattore.

Nei primi tre anni, quelli più duri, ha ristrutturato la vecchia casa di famiglia trasformandola in una cantina posta a tre metri sotto terra, dove il vino, citando le sue stesse parole, riposa al fresco e al buio senza rumori o scossoni. Ora, dopo aver fatto nuovi impianti e ristrutturato vecchie vigne, gestisce quattro ettari di vigneto di cui tre iscritti all’albo vigneti Gattinara DOCG e da cui produce quattro vini: 

  • Gattinara DOCG Riserva 
  • Gattinara DOCG Pietro
  • Velut Luna Coste della Sesia Nebbiolo
  • Uvenere  rosso da tavola da vigneti di circa 50 / 70  anni di età. 

Paride Iaretti, è stato premiato dalla guida Vini d’Italia 2012 de “L’Espresso” per il Gattinara Pietro 2007, e inserito nella cantina didattica di ALMA WINE ACADEMY, la Scuola Internazionale di cucina Italiana di Colorno.

“Cinzia, quando mi hai detto che venivi a visitare i miei vigneti ne sono stato felice; non mi stancherò mai di portare le persone in collina tra i filari a pestare i porfidi vulcanici ricchi di ferro. Solo così si può capire il Nebbiolo di Gattinara, un vino che produco con il massimo rispetto per l’ambiente e per le tradizioni. Paride Iaretti”

Posso solo aggiungere, che chi ama con vera passione il vino, oltre a berlo, lo vive sul campo, ascoltando i racconti di vita contadina di chi lo produce…  

San Martino, di Paride Iaretti     

    

Novembre sulle colline… nella vigna silenziosa un piccolo grappolo d’uva sta ancora aggrappato alla sua madre storta, sfuggito all’occhio e alla forbice del vignaiolo, forse nascosto tra i colori delle foglie di ottobre. Sta li, solitario, nel sole della sera dopo l’ultimo temporale dell’estate di San Martino, consapevole di morire li dove è nato.

Triste, per non aver potuto partecipare alla festa della vendemmia, al viaggio con i compagni nella bigoncia verso la fresca ed oscura cantina, all’euforia della fermentazione e al lungo riposo in botte nell’attesa di esser vino maturo, rubino, corposo e profumato.

Si ricorda di essere stato una piccola gemma, un tenero germoglio appeso ad un fragile tralcio, di essere stato un piccolo e profumato fiore. Ricorda d’aver goduto del sole di luglio e di aver temuto le tempeste di agosto; ed ora, che giungono dal paese le voci e i suoni della fiera, nessuno si ricorda di lui…

Gli saranno grati, in dicembre bianco di neve, i passeri arruffati che infreddoliti ed affamati troveranno ristoro nei suoi acini ormai appassiti dall’inverno che incombe.

 




Da Gianni Cogo, a Giorgio Grai, a Michele Bean, a Franco Dalla Rosa. Nessun incontro è per caso…

Un unico denominatore comune, un grappolo d’uva fatto di tante piccole sfere. Il cerchio si è chiuso, per lo meno questo cerchio. In Giapponese la parola cerchio è tradotta in ‘enso’, e significa illuminazione, forza, universo. E’ il momento in cui la mente si libera dando sfogo alla creatività.

C’era una volta, in un tempo passato, in cui vivevo la mia vita con il freno a mano tirato. Ruotava su se stessa, senza portarmi da nessuna parte. Non vivevo, o meglio, sopravvivevo. Accettare una vita che mi autoconvincevo di avere la fortuna di vivere, era una sfida con me stessa. Ma ora mi chiedo – ma perché mai dovremmo farlo?! –

La vita è vera solo se vissuta. Nel momento in cui lo capisci, pian piano lasci andare il freno a mano, e tutto cambia… Cambia a tal punto che non riesci più a vivere la vita di prima. Quello è l’unico problema. E allora corri, conosci, ricerchi, ma finalmente vivi.  Ed è così che succede che mentre continui a vivere quello che non hai vissuto, e a conoscere quello che non hai conosciuto, incontri persone che ti consigliano, e con cui senti l’esigenza di parlare.

“Nessun incontro è un caso… Incomincio a pensare e a credere decisamente che sia così, e questo pensiero rende la vita più divertente e piena di significato. Se riguardate alla vostra vita passata, potete constatare che ogni persona che avete incontrato, ogni singola persona, ha contribuito a suo modo a farvi essere quello che siete oggi. Kay Pollak”

Ricordo ancora quando incontrai Giorgio Grai su consiglio del viticoltore Gianni Cogo. Quando mi chiese il motivo della mia visita, gli risposi che non lo sapevo, o meglio, ero li per capirlo. Grazie a lui, nonostante le prese di posizione un po’ aspre, mi sono imbattuta in un enotecnico del Collio Friulano, Michele Bean. Incuriosita da alcune sue affermazioni legate a Grai, gli chiesi di incontrarci.

Michele è un giovane enotecnico della terra del Collio. Spigoloso ma genuino, passionale e con vero credo per la terra, convinto come me, che il vino sia fatto da persone. Uno di quegli uomini che i più definiscono ruvidi, con cui io amo confrontarmi. Ci siamo trovati in una piazza di Treviso.

Michele Bean ha iniziato la sua attività nei Colli Orientali del Friuli, seguendo ogni fase della viticoltura, come è giusto che sia per chi vuole realmente capire, imparare e migliorare. Dopo un’esperienza negli USA, nel 2003 è tornato in Italia.  Ora è consulente di aziende in Sicilia, in Toscana e in Friuli. Ma non solo, visto che sta sperimentando nuove realtà e nuovi vitigni in Serbia.

Mi piace aver a che fare con persone stimolanti, che non vogliono vivere per forza sui binari. Il vino ti da la possibilità di diventare una persona migliore, se ne sai carpire l’essenza. Non è il prodotto in se… è una cosa che va ben oltre. E’ quel guizzo che vedi negli occhi quando fai assaggiare cose buone ad altri. E’ la voce rotta di un produttore “vero”,  quando ti parla della sua esperienza di vita e del suo percorso. Sono propositivo, leale, elastico ma per nulla molle, visionario, ma in continua crescita… Michele Bean”

Mi consigliò di conoscere un uomo in cui riponeva profonda stima e rispetto, Franco Dalla Rosa.  Mi disse: Lui mi ha formato. Una buona parte della mia conoscenza di base è la sua.”  Ho seguito il consiglio.

Franco Dalla Rosa, uno di quegli uomini che quando ti stringono la mano lo fanno sul serio. Un uomo semplice dal volto buono e dalla lunga esperienza. In una vecchia Osteria di Treviso mi ha raccontato brevemente il suo percorso di vita. Nato ad Asolo da una famiglia contadina. Suo padre, che mi ha descritto con grandi parole d’ammirazione, è colui che gli ha trasmesso quell’amore per la terra che lo ha portato verso il settore dell’enologia. Dopo gli studi a Conegliano ha intrapreso la sua strada nel mondo del vino lavorando prima nella Cantina sociale di Asolo, per poi continuare nell’Azienda Cà Ronesca a Dolegna del Collio. Qui ha incontrato un giovane appassionato che iniziava a compiere i suoi primi passi nella viticoltura, Michele Bean.

Nel pomeriggio passato insieme si è discusso di tradizioni, di cultura del vino, e di termini abusati e impropri quali “bollicine” e “prosecchino” che, sminuendo il vino senza far cultura, favoriscono le produzioni industriali legate alla quantità e non alla qualità.

Franco ora è tornato a svolgere la sua attività di enotecnico ad Asolo, perchè le radici lo hanno chiamato, perchè quest’uomo è parte integrante di questa terra.  Ha un progetto: recuperare un vitigno a bacca rossa quasi estinto in cui crede. Ma questa è un’altra storia…




“Lu Vi Cottu” della terra dei cinghiali

Vi presento “lu vi cottu” che in dialetto marchigiano indica “il vino cotto”, un vino da dessert.

Siamo a Loro Piceno, nel maceratese, il comune per eccellenza di questa antichissima bevanda di tradizione marchigiana. Mario Soldati nell’opera Vino al Vino del 1971, descrivendo le sensazioni provate all’assaggio di un mosto cotto invecchiato sessant’ anni scriveva:

“Lo trovo un vino da dessert, ottimo. Di un bel colore rosso mattone a riflessi di oro cupo, il sapore strano, affumicato e ruvido, corregge ed evita quella dolcezza vischiosa e a volte nauseante di tanti passiti e marsalati. C’è qualcosa di affascinante, di profondo rustico e montano, nel vino cotto…”

Me lo ha fatto conoscere la cara Emanuela Tiberi dell’Az. Agricola David Tiberi di Loro Piceno (MC).

Insieme a lei, ma non solo, ho passato piacevolmente una serata del girotondo enogastronomico “Per Tutti i Gusti” dedicata alla regione Marche. Coordinatore di questo tour, Carlo Vischi, l’ambientazione quella de “Il Canneto, ristorante dell’Hotel Sheraton Malpensa.

Durante la cena con Emanuela si è parlato a lungo di questa produzione tipicamente  marchigiana dalla storia millenaria. Visto il mio interesse per le tradizioni ha pensato bene di inviarmi una pubblicazione realizzata dalla Camera di Commercio di Macerata che ho ricevuto pochi giorni fa, e su cui leggo testualmente:

“Vuole la tradizione che, conservato in botti di rovere, esso costituisse un principio medicamentoso atto a conservare lucentezza alla pelle, curare gli eritemi dei bambini, risanare gli effluvi degli aliti e, principalmente, sollevare lo spirito umano dalla monotonia di ogni giorno. Non c’era contadino o mezzadro che un tempo non avesse la propria botte di vino cotto.”

Il vino cotto ottenuto dalla bollitura del mosto dei vitigni di Verdicchio, Trebbiano, Montepulciano e Sangiovese, riposa a lungo invecchiando in botti di legno di rovere. Oltre ad essere utilizzato nella preparazione di dolci e per insaporire le carni, è un ottimo rimedio per curare la tosse e il raffreddore.

Detto questo mi direte: “Ma… i cinghiali son scappati?” Magari vi rispondo!

Purtroppo sono causa di continua e seria devastazione dei raccolti. Da anni interi branchi danneggiano le coltivazioni di queste terre creando gravi ostacoli all’agricoltura locale. Nemmeno l’attività venatoria è stata capace di ridurre la presenza di questi animali selvatici. Un’analisi della Coldiretti ha stimato i danni conseguenti agli attacchi ad un importo di oltre quattro milioni di euro.

Riporto qui di seguito lo sfogo che solo qualche giorno fa Emanuela mi ha fatto scrivendomi una mail:

“Cinzia, oggi sono andata a potare la mia vigna; su diverse viti ho trovato enormi buche che i cinghiali hanno scavato per cercare le radici. Il rischio è la conseguente morte delle piante. Un vero problema che noi agricoltori nel maceratese viviamo da anni. Chi di dovere se ne occupa, ma i risultati sono ancora poco visibili.”

Sembra quasi impossibile che non si possa risolvere questa situazione. Da curiosa quale sono ricercando sul web, ho trovato un articolo del 2010 della Provincia di Sondrio che riporta la strategia adottata dagli agricoltori locali “sull’uso dell’odore dell’orso” per allontanare i cinghiali. Strategia decisamente da approfondire…

 




Mi chiamo Alessandro Job… racconto le mie emozioni attraverso il vino

Azienda Agricola Villa Job – Pozzuolo del Friuli (Udine)

“Mi chiamo Alessandro Job, ho 30 anni e amo sognare e raccontare la vita e le mie emozioni attraverso il vino. Questo è quello che sono, nella sua pura essenza e senza fronzoli. Perché proprio il vino? Perché certe cose sono difficili da spiegare solo con le parole…”

Ho conosciuto Alessandro inizialmente sul web, poi di persona a Milano al Food & Wine Festival 2012,  e poi, come piace a me, sul “campo”, quando insieme all’amico Michelangelo Tagliente sono andata a trovarlo direttamente in azienda, o meglio in villa, Villa Job.

La sua azienda agricola si trova in una dimora storica costruita nel 1637 e acquistata da Gregorio Job nel 1910. Da appassionata di storia quale sono ho apprezzato molto i soffitti piacevolmente decorati, le statue settecentesche collocate nel giardino, ma soprattutto la cantina con volta a botte con “segni” che l’occhio attento sa vedere.

Bere vino in ambienti storici è molto suggestivo, soprattutto per una persona come me che in queste atmosfere viaggia con la mente.

Sei ettari di vigneto in cui ho passeggiato insieme ad Alessandro mentre lo ascoltavo raccontare le sue scelte di vita.  Un percorso che ha iniziato giovanissimo nel 1985, e che l’ha legato indissolubilmente alla terra e alla coltivazione naturale.

Al calar della sera ci siamo spostati all’interno dedicandoci alle degustazioni dei suoi vini. Lo scrivo spesso e qui mi ripeto, sono “donna di rossi di struttura e di carattere” e difficilmente mi smentisco. Ovviamente con tutto il rispetto per i bianchi; un ottimo esempio è il suo Risic Blanc  biologico 2010 IGT che  in friulano significa vitigno bianco, un blend di Chardonnay e Sauvignon.

Durante la degustazione la mia attenzione si è rivolta in particolare verso il Serious, un vino rosso biologico senza solfiti nato dalla volontà di Alessandro di produrre un vino naturale legato alla terra, un vino semplice ma…  Serious.

Questo per me è il vino che sa d’uva,  un vino che mi riporta alla terra, un vino contadino…

 




Rocco Vallorani, un giovane enologo e… “ciò che sta dietro a una bottiglia”

Vigneti Vallorani – Colli del Tronto (AP)

Era il 2 ottobre 2012 quando mi arrivò una mail…

Gentile Cinzia, mi chiamo Rocco Vallorani. Ho iniziato a seguirti sul web perché mi ha colpito l’attenzione che dai in tutti i tuoi post a “ciò che sta dietro a una bottiglia”. 

Mi piace molto il tuo modo di raccontare le cose, un’analisi, o meglio un racconto, che va oltre la scheda descrittiva spingendosi più in là, fino cercare la storia che c’è dietro ad ogni prodotto. E’ per questo motivo che ho deciso di scriverti…

Ho studiato enologia a Perugia prima, e a Torino poi. Nel frattempo sono stato per diversi anni in giro per l’Italia e non solo (NZ, USA, Francia ) lavorando come cantiniere e/o assistente enologo, cercando di aumentare le mie conoscenze e competenze, imparando un po’ da tutte le splendide persone che ho incrociato nel mio cammino professionale. Nel 2010 sono tornato a casa e insieme a mio fratello ho ristrutturato la cantina che fu di mio nonno e poi di mio padre. Insieme ci siamo rimessi a produrre vino dando vita ai “Vigneti Vallorani”.

Noi vendiamo la quasi totalità delle bottiglie direttamente, riducendo al minimo indispensabile i rappresentanti. Ci teniamo a farlo in prima persona, e, quando possibile, a far visitare l’azienda ai clienti, perché non vogliamo solo vendere una bottiglia che, piazzata su uno scaffale sarà solo una delle tante, ma, attraverso i nostri vini, cerchiamo di trasmettere le nostre idee, i nostri valori, ed il nostro territorio.

Ti ringrazio per il pezzo che hai scritto, “ridare l’identità ai contadini“, spero possa arrivare agli occhi di chi decide delle nostre sorti ma, sinceramente, ne dubito, scusa il pessimismo. Ho visto che sei spesso in viaggio, hai in programma una visita nel Piceno? Sarebbe un piacere incontrare una persona così attenta nell’ascoltare la voce di chi ha qualcosa da raccontare…  Rocco

Ricordo che inizialmente mi scrisse chiedendomi un giudizio sui vini che avrebbe provveduto a spedirmi. Lo fermai subito sia pur ringraziandolo per la fiducia. Gli feci capire che non sarei stata in grado di scrivere nulla così. La conoscenza delle persone per me è fondamentale esperienza per capire i loro prodotti. I giudizi tecnici li lascio agli esperti, io il vino lo bevo e lo vivo facendomelo raccontare da chi lo produce.

Lui è un giovane enologo che mi ha capito e non si è arreso. L’ho trovato così determinato da non poter non accettare l’invito per incontrarlo e conoscerlo a Bologna in occasione di “Gusto Nudo”, la Fiera dei vignaioli Eretici.

Li abbiamo parlato e mi ha raccontato…

Rocco Vallorani è cresciuto nell’azienda di famiglia. A quei tempi il vino prodotto era destinato al mercato locale e venduto prevalentemente sfuso. Dopo aver frequentato l’istituto agrario si è iscritto a Perugia al corso di laurea in viticoltura ed enologia. Mentre studiava ha avuto modo di fare il tirocinio a Montalcino nell’Azienda Siro Pacenti.

Rocco:A fianco al titolare, Giancarlo Pacenti, persona vera e perfezionista all’inverosimile, mi sono  letteralmente innamorato del sangiovese e della sua eleganza.

Sentendo la necessità di vedere cose nuove e di ampliare le sue conoscenze sul vino, decise di partire cercando lavoro in Nuova Zelanda, terra dai paesaggi fantastici e incontaminati che lo ha fatto innamorare già dai primi giorni.

Rocco:Gente sempre con il sorriso sulle labbra, rispettosa dei beni comuni. Nessuno li si permette di buttare una cicca a terra o lasciare rifiuti in un parco (da Italiano ho provato molta invidia).

Una volta tornato accettò l’incarico di assistente enologo in una cantina di Limoux in Francia, nella Linguadoca. Fu in quel periodo che si rese conto di non aver appagato del tutto la sua voglia di sapere. Decise quindi di iscriversi al corso di laurea specialistica in scienze viticole ed enologiche delle università di Torino e di Milano che si tiene ad Asti.  Durante queste esperienze, fondamentali per la sua crescita personale e professionale, ha avuto modo di conoscere persone squisite provenienti da ogni angolo del mondo, tutte legate dalla stessa passione per il vino. L’Italia a suo favore però ha un infinito potenziale varietale che nessuno stato, tantomeno la Francia, può vantare. Più di 600 varietà di vite capaci di produrre vini unici nel loro genere con un forte legame con il territorio, che rende le nostre varietà poco adattabili ad altri ambienti.

Rocco: “Ho provato dei Sangiovese prodotti negli States o in Australia, dei Montepulciani neozelandesi, Arneis e Nebbioli prodotti negli Stati Uniti. Pur riconoscendo l’elevata qualità media dei vini del nuovo mondo, sulle varietà Italiche non c’è confronto. A differenza delle nostre varietà autoctone, quelle francesi sono state esportate con ottimi risultati in tutto il mondo. Basti pensare ai buonissimi Sauvignon Neozelandesi, agli ottimi Cabernet e Merlot degli Stati Uniti, agli interessanti Chardonnnay Cileni o i Shiraz Australiani. Sono convinto che la valorizzazione delle nostre varietà possa essere la nostra arma in più nell’ormai globalizzato mercato del vino.”

Durante l’esperienza all’estero Rocco mi ha raccontato quanto ha apprezzato il clima di sincera collaborazione tra tutti i produttori, consapevoli del fatto che, muovendosi nella stessa direzione è l’intera area ad acquisire valore. Se penso a quante volte insisto nei miei scritti e a voce durante le mie visite su questo concetto… mah, dicono che chi la dura la vince, io dico solo che insisto!

Rocco: “Cinzia, ci tengo a raccontarti un particolare; premesso che le degustazioni nelle aziende del nuovo mondo si pagano 5-10 dollari a persona, in tutti gli stati è prevista la degustazione gratuita per i lavoratori del settore. Cioè un consumatore normale che va a fare una degustazione sostiene il costo della stessa, mentre per un dipendente di un’altra cantina non ci sono costi. Inoltre in ogni zona viticola venivano organizzati party pre e post vendemmia solo per le persone del settore, ognuno portava una bottiglia della cantina per la quale lavorava e tutti insieme ci si trovava a degustare tutti i vini del territorio scambiandosi conoscenze e pareri.”

Altro argomento che abbiamo affrontato insieme è stato quello relativo alla figura e alle mansioni del winemaker su cui mi sono già precedentemente soffermata. Rocco mi ha raccontato che da produttore ed enologo è rimasto molto colpito dal fatto che tutte le cantine hanno un “winemaker” interno, molto spesso giovane, sui 30-35 anni, con laurea in Enologia e diverse esperienze alle spalle. Una persona competente che si affianca al vignaiolo, vivendo il vigneto e la cantina tutti i giorni dell’anno, seguendo le viti dal risveglio primaverile fino alla vendemmia, poi i vini fino alla bottiglia.

Rocco: “Gli enologi che ho avuto la fortuna di incontrare mi hanno raccontato che il loro obbiettivo è quello di ottenere vini che esprimessero le idee del proprietario. Tra gli appassionati dei vini prodotti utilizzando le tecniche naturali, gli enologi sono spesso visti come chimici del settore, pronti con pozioni o unguenti a rendere “innaturali” i vini. A mio parere un bravo enologo è colui che segue i vigneti, da questi decide quando e come vinificare e quali tecniche utilizzare per ottenere un vino che sia la migliore espressione del connubio tra vitigno, territorio e persone che lo lavorano. Oggi purtroppo molte aziende si affidano ai cosiddetti “superconsulenti”, enologi sicuramente molto preparati e brillanti, che si trovano però a seguire decine di cantine sparse su tutto il territorio, e a gestire uve di ogni tipologia prodotte in condizioni totalmente diverse. Considerando anche i costi di queste consulenze, non sarebbe forse più giusto affidarsi a un enologo, magari giovane, che possa davvero dedicarsi quotidianamente alla nascita di un determinato vino, trasmettendo tramite questo anche la personalità propria e quella del vignaiolo? E per le cantine non sarebbe meglio avere una persona con le specifiche competenze che li affianca nel lavoro quotidiano?”

Rocco con il fratello Stefano ha deciso nel 2005 di dedicarsi all’azienda di famiglia chiudendo inizialmente la cantina  per avviare i lavori di ristrutturazione terminati nel 2010. Una realtà a conduzione biologica in terra marchigiana alimentata energicamente da un impianto fotovoltaico che gli permette di avere, nell’arco dell’anno, un bilancio energetico positivo. Una  superfice di otto ettari di cui sette a vigneto e uno a oliveto. Le varietà allevate sono Pecorino, Passerina, Trebbiano, Malvasia, Sangiovese e Montepulciano.

Rocco: “Tutti i nostri prodotti fanno affinamento sur lies, una tecnica antica nata in Borgogna per la produzione di Chablis, che permetteva di ottenere vini più complessi dal punto di vista aromatico e gustativo favorendo inoltre le stabilità tartarica e proteica dei vini. L’unico neo di questa tecnica è il tempo; per avvenire al meglio richiede almeno 6-8 mesi, ma spesso anche un anno. Purtroppo, con l’industrializzazione della produzione di vino le tecniche che richiedevano tempo sono state accantonate per far posto a nuovi prodotti naturali e/o di sintesi, ed attrezzature all’avanguardia in grado di accelerare ogni tipo di processo. Oggi per fortuna si sta guardando al passato cercando di apprendere le cose migliori che, erroneamente, ci eravamo lasciati alle spalle. Sarei un ipocrita se dicessi che la tecnologia non faciliti il lavoro, però credo che debba essere utilizzata nella maniera giusta, senza forzature. Crediamo molto nelle potenzialità del piceno e per i nostri vini abbiamo cercato dei nomi che fossero legati alla nostra tradizione.”

  • Avora è un Falerio DOC, una delle denominazioni più antiche del Piceno che si produce assemblando le varietà a bacca bianca allevate in quest’area. Il nome deriva da un termine dialettale utilizzato per indicare i terreni soggetti alla Bora (Bora diventa Vora in dialetto marchigiano) quindi quelli esposti a Est-Nord/Est, come i terreni con i quali produciamo questo vino.
  • Polisia è un Rosso Piceno DOC, altra doc storica locale, prodotto con un assemblaggio di Montepulciano e Sangiovese. Il nome deriva dalla legenda di Polisia, figlia di un prefetto romano che governava ad Ascoli che, contro la volontà del padre, si fece battezzare dal vescovo di Ascoli per poi rifugiarsi sul Monte Ascenzione da dove protegge gli abitanti del Piceno.
  • Il Konè è un Rosso Piceno Superiore DOC prodotto dalle varietà Sangiovese e Montepulciano ma affinato in barriques di rovere francese per almeno 14 mesi. Il nome deriva da un termine dialettale ascolano ma di origine greca, Konè, che sta ad indicare qualcosa di prezioso. Oramai in disuso nel linguaggio quotidiano, questo termine veniva spesso utilizzato dai nonni per chiamare amabilmente i nipoti.

Nelle annate che lo permettono, oltre alla nostra linea, produciamo due riserve, un Montepulciano ed un Sangiovese in purezza affinati in barrique per 24 mesi. Questi vini sono stati dedicati da noi ai nostri nonni, perché è grazie a loro che oggi abbiamo la possibilità di valorizzare il patrimonio che ci hanno lasciato. Il Sangiovese, elegante e raffinato come nostro nonno Livio, si chiama appunto Sorlivio, mentre il Montepulciano, caratterizzato da un carattere più deciso come era nostra nonna Filomena, si chiama Philumene, che nell’etimologia greca significa amico della forza.

Fra qualche mese ho in previsione una tappa nelle Marche. Rocco non mancherò di venirti a trovare come abitualmente faccio e come piace a me, direttamente sul campo… o meglio, in vigna!

 




La passione per il vino di… Bruno Dotti

Bruno Dotti, titolare dell’Azienda Agricola San Cristoforo a Erbusco, il cuore della Franciacorta.

“Ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo che sia salvo chi lo crede…”  Luigi Pulci (1432 – 1484)

Luigi Pulci, poeta italiano del 1400 esprime con i suoi versi il mio pensiero: “nel buon vino ho fede.”  Ma quanti credono con vera passione nel vino? Lungi da me far polemica, ma come dico spesso, devo credere in quello che faccio e in quello che scrivo, esattamente come un vignaiolo deve credere nel vino. La passione non si può esprimere in altro modo…

Ma ora entro in merito per farvi capire il perché di questa mia premessa.

Recentemente ho visitato l’Azienda Agricola San Cristoforo seguendo i buoni consigli di Mattia Vezzola, che, dietro mia richiesta mi ha suggerito loro, e altre realtà da visitare in terra di Franciacorta.

Bruno Dotti, titolare dell’azienda familiare in cui collabora con la moglie Claudia, non è nato vignaiolo, tutt’altro… Anni fa seguendo la passione del padre ha acquistato una piccola realtà vitivinicola imparando man mano l’arte di fare vino. Dai due ettari iniziali oggi il suo vigneto ne ricopre ben dodici distribuiti in vari appezzamenti tutti nel comune di Erbusco.

Durante la mia visita Bruno mi ha raccontato la sua felice scelta di vita, scelta lievemente offuscata dalle problematiche, le classiche ormai che sono abituata ad ascoltare, legate alla “strangolante burocrazia”.

Dopo la visita al vigneto e alla cantina ci siamo trasferiti nella sala degustazione, giusto perché, con il mio chiacchierare, una certa sete va sempre soddisfatta. E qui arriva il bello, e mi spiego…

Come al solito, tra foto che metto all’istante in rete e macchina fotografica alla mano per fermare i ricordi, ho iniziato la mia esplorazione. Attirata da alcune belle bottiglie dipinte esposte qua e la, ho notato con estremo piacere che erano produzioni di realtà locali e non.

La cosa mi ha entusiasmato a tal punto da non potermi esimermi dal complimentarmi per la scelta dettata da un autentico amore per questo settore che, in questo modo, trova la sua giusta espressione nel “fare sistema”.

A conclusione del nostro incontro abbiamo brindato a chi crede con “vera passione” nel il vino, bevendo un calice del suo Franciacorta DOCG Brut, uvaggio Chardonnay 100%.

Salute ai bevitori di passione!




Giorgio Grai, e “il senso del dovere”

“Stiamo vivendo in un’epoca in cui tutti hanno diritti, ma nessuno parla di doveri. Giorgio Grai”

Ho incontrato Giorgio Grai seguendo il consiglio di Gianni Cogo, l’ingegnere brianzolo che “arma le terre” a Bonassola e di cui ho scritto poco tempo fa. Avevo organizzato un tour di vini, ma soprattutto di vignaioli tra il Veneto e il Friuli. In particolare mi sentivo in dovere di mantenere la promessa fatta tempo indietro all’amico Michelangelo Tagliente nel condurlo in visita a Oslavia dal caro Josko Gravner.

Dopo aver inviato una mail per fissare un incontro, una mattina rispondendo al cellulare ho sentito una voce dirmi: “Buongiorno Cinzia, sono Giorgio Grai.” Ero di base da amici nel centro di Treviso. Partita di buon’ora raggiunsi Michelangelo a Concordia Saggitaria; un abbraccio e via per la prima tappa del nostro tour, direzione Buttrio del Friuli.

Non mi ero informata molto sulla storia di Giorgio. Come di consuetudine preferisco conoscere le persone direttamente, per farmene un’idea non viziata da ciò che leggo o sento; qualche volta mi rendo conto che è un po’ rischioso, ma a me piace così, perché quello che vivo in questo modo è molto più emozionante.

Michelangelo è stato testimone di quel che scrivo; solo dopo, sulla strada del ritorno, mi ha rivelato che ha temuto un pochino nell’ascoltare i nostri discorsi per la piega che inizialmente avevano preso. Giorgio Grai non capendo esattamente cosa cercassi con le mie domande ad un tratto mi chiese deciso: “Vorrei capire come posso essere utile per lei?” Non potevo che rispondergli che non lo sapevo. Ero li perché mi avevano consigliato di conoscerlo. Gli dissi semplicemente che lo avrei capito solo attraverso la sua conoscenza.

Un uomo non facile… ma non lo sono neanch’io. C’è stato un momento in cui, vista la sua perplessità, non ho potuto fare a meno di chiedergli: “Coraggio, dica quello che pensa!” La sua risposta è stata: “Signora, se c’è una persona che dice quello che pensa sono io!” In questa sua affermazione mi sono ritrovata. Durante la mia vita ho pagato molte volte per le mie scelte, per non essere scesa a compromessi.

Il mio ormai è un percorso, anche se non mi è ancora del tutto chiara la destinazione. Forse è proprio per questo che mi faccio guidare; so solo che da ogni persona che incontro cerco di trarre un insegnamento che amo scrivere in modo semplice, che custodisco, e che condivido.

Giorgio Grai è nato a Bolzano da padre triestino e madre roveretana. Figlio di una famiglia di albergatori è cresciuto in un tempo in cui, citando le sue stesse parole “il diritto di poter studiare voleva dire avere il diritto di essere promossi”. Dopo gli studi di agraria e la specializzazione in viticultura ed enologia, le esperienze fatte all’estero lo hanno educato all’ uso del tatto, del gusto e del profumo. La passione per i motori che ben capisco e che condivido, lo hanno portato poi ad essere per ben dieci anni un pilota di rally.

Non mi soffermo troppo sulla storia della sua vita a molti ben nota dalle informazioni sul web; ho preferito “vivere l’uomo” mentre, degustando vino alla luce del sole, riflettevo sulle sue parole: “Il recupero del senso del dovere oltre che del diritto”. Al mio ritorno a casa di cose su di lui ne ho lette e ne ho sentite molte… Io so solo per certo, che ricorderò di averlo conosciuto in una mattinata di Marzo mentre assaporava la sua torta di papavero, tipicità del sud Tirolo, e che poi, abbiamo passeggiato insieme nella cantina dell’azienda agricola condotta con Marina Danieli.

E ora vi chiedo: “Vi è mai capitato di degustare vino appoggiando i calici su un cofano di una Subaro sotto il sole caldo di una mattina di Marzo ?” Io l’ho fatto, ma soprattutto l’ho vissuto. In quell’atmosfera ho assaporato la vita ascoltando Giorgio raccontare il suo vino e infine sentendogli dire: “Godo di questo momento.

Riporto qui di seguito un passaggio tratto da “I Vignaioli storici” di Luigi Veronelli e Nichi Stefi, che Giorgio Grai mi ha dato il giorno del nostro incontro.

“Giorgio Grai appare con l’aria distaccata di chi non vuole appartenere a nessuno ed è disposto a pagare con l’isolamento la sua libertà. Ha la battuta pronta, spesso caustica, sempre divertente; ma sotto la risata si legge la sua voglia di precisione. La sua avventura nel vino non è solo frutto di un piacere grande ed evidente, ma il lavoro continuo di cui è consapevole e che ti propone come fosse la cosa più ovvia del mondo…”




Il vino artigianale di Andi Fausto, un uomo fuori dalla mischia

Andi Fausto,  titolare dell’Azienda Agricola a conduzione biodinamica situata a Montù Beccaria.

Nel mio gruppo amatoriale “Le Vigne-tte” si commenta spesso di vino, di natura, e di territorio. Devo dire che ho il piacere di condividere pensieri con “grandi” personaggi. Grandi direte…?!  Per me lo sono, per il loro credo nella terra e nelle persone. La grandezza appartiene ai semplici, non ha bisogno di scintille o di clamore… appartiene a chi vive nella verità, nell’etica, e nell’onestà.

Ebbene, qualche giorno fa mentre si discuteva di vini naturali è intervenuto l’amico Teresio Nardi, fiduciario della condotta Slow Food:  “In Oltrepò c’è un piccolo produttore che lavora con pochissima chimica in vigna (verderame e zolfo) e, per alcuni vini, senza aggiunta di bisolfito. Ottiene prodotti fuori dagli schemi standard non sempre apprezzati dai degustatori ufficiali, ma che vale la pena di assaggiare. Si chiama Andi Fausto”.

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Fausto Andi

Come dico spesso, e qui mi ripeto, seguo sempre i consigli delle persone che stimo nei miei percorsi di conoscenza, tanto che, seduta stante presi il telefono, e, dopo una bella chiacchierata fissai un incontro. Conoscere Fausto è stato un vero piacere, anche se devo ammettere che, nonostante chi mi conosce stenterà a crederlo, ho trovato chi chiacchiera più di me! 😉

L’azienda agricola biodinamica Andi Fausto nel corso degli anni ha recuperato vigneti autoctoni e vigne storiche grazie alla tradizione vinicola familiare tramandata. Durante la mia visita mi ha colpito molto il racconto della nascita della bottaia didattica. Capire l’importanza del legno è di fondamentale esperienza.

Fausto mi ha raccontato come, il famoso bottaio “Cassi” di Casabianca di Montù Beccaria, gli ha insegnato a gestire le problematiche del legno importanti per l’influenza che si vuole dare al proprio vino. Questi insegnamenti l’hanno portato nel 2007 a conoscere Pietro Garbellotto, che, dopo avere ascoltato e apprezzato i contenuti delle richieste di Fausto, ha realizzato la sua bottaia didattica. Pietro Garbellotto, uno degli imprenditori veneti più conosciuti a livello mondiale nel settore vinicolo è scomparso nel 2011 a 88 anni; l’artigiano bottaio di Conegliano (TV) soprannominato “il re delle botti”.

Cantina dell'Azienda Agricola Fausto Andi

Cantina dell’Azienda Agricola Fausto Andi

Durante la visita in cantina, quando Fausto mi ha chiesto che vino volessi assaggiare la mia risposta prontamente è stata: “Rosso e di carattere!” Ho degustato l’Alianum vendemmia 2007, 18 gradi, un vino artigianale come lui lo definisce ottenuto dalla Moradella,  un vitigno storico che ha recuperato. Un vino rosso, caldo, particolare e avvolgente, che ho apprezzato molto.

Nei suoi racconti mi ha colpito un’espressione che ha usato e che condivido pienamente – la perdita della capacità di osservazione del contadino – quella saggezza interpretativa nell’osservazione del cielo e delle condizioni metereologiche che tanto influivano sullo svolgimento delle attività agricole.

Un uomo “fuori dalla mischia”, e non solo per il suo pensiero…  Questa definizione corrisponde al nome di un suo progetto di assistenza. La  finalità è di promuovere l’integrazione di persone attraverso un laboratorio che riunisce gruppi dediti alla trasformazione di prodotti dell’azienda, e di circuiti a coltivazione biologica.

Il laboratorio di agricoltura sociale nato nel 2006, permette ai “collaboratori” in un ambiente familiare lo svolgimento delle attività per la produzione di confetture, vellutate di verdure, succhi di frutta, oltre che al singolare decoro delle bottiglie destinate ad una distribuzione mirata.

“Tu fai e lasciali parlare”

Andi Fausto

 

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