1

C’è chi sogna l’America… io sogno la Trinacria

Ricordando Ragusa… viaggiando ‘a casa’ tra ricordi e sapori.

C’è chi sogna l’America… per quanto mi riguarda nella lista dei miei desideri di viaggio c’è la bella Sicilia, un’isola dalla forma particolare un tempo chiamata Trinacria, simbolo araldico che raffigura una testa femminile con tre gambe piegate. Un nome composto da due termini sanscriti: ‘trna’ giardino e ‘krjia’ creato, il giardino dell’Eden. In realtà, a fine aprile, avevo programmato un bel viaggio itinerante purtroppo annullato per l’emergenza che ha coinvolto e sconvolto l’intero pianeta. Un viaggio sognato ma solo rimandato a tempi migliori. Il meno dei mali in questo periodo drammatico che tutti – chi più, chi meno – stiamo vivendo.

Ebbene, per consolarmi ho voluto rispolverare qualche ricordo di un tour fatto tempo fa a Ragusa. Una città che ho inizialmente conosciuto – come tanti – grazie alla nota serie televisiva tratta dai romanzi del caro Andrea Camilleri.  A dire la verità l’ho voluta visitare anche per la sensazione che fosse un po’ trascurata dai turisti che scelgono la Sicilia come meta di viaggio.

Ragusa, la città dei cento ponti e dei diciotto monumenti Unesco, l’isola nell’isola (capirete il significato di questa definizione dopo averla visitata). Da qualche anno dal punto di vista turistico le cose sono decisamente cambiate. Un successo certamente da attribuire alla ricchezza artistica, paesaggistica e gastronomica, ma anche all’estrema cura della città e alla gentilezza della sua gente. Grande merito di questa crescita, che tra l’altro ha permesso di migliorarne l’accoglienza e i servizi, è certamente da attribuire alla serie televisiva del Commissario Montalbano. Una fiction che oltre a valorizzare il territorio ragusano, ha contribuito a far conoscere alcune ricette della tradizione siciliana. Preparazioni con ingredienti del territorio che durante il mio soggiorno ragusano non mi sono fatta mancare. Arancini, busiate alle sarde, caponata, insalata siciliana (pomodoro, cipolla, capperi e origano), minne di Sant’Agata, pane cunzatu (pane condito), cassate di ricotta… e molti altri ancora.

Visto che domani vivremo tutti una Pasqua ‘blindata’ nelle nostre case, ho deciso di rispolverare i bei ricordi del mio viaggio preparando un dolce antico ragusano tipico del periodo pasquale. Una preparazione fatta di semplici ingredienti che non ha nulla a che vedere con la più ben nota cassata siciliana. Un cestino di pasta ripiena di tuma fresca – la cagliata, la prima fase della produzione del formaggio – e ricotta. 

Cassate di ricotta ragusane

Per il ripieno:

  • 1 kg di tuma
  • 500 gr. di ricotta
  • 450 gr. di zucchero
  • 2 uova
  • cannella, cioccolato e buccia grattugiata di limone

Per l’impasto:

  • 1 kg di farina di semola di grano duro
  • 3 tuorli
  • 50 gr di strutto
  • acqua q.b.

Amalgamare tuma e ricotta (o solo ricotta) con uova e zucchero, quindi aggiungere cannella, buccia di limone grattugiato e scaglie di cioccolato. Il cestino della cassata si prepara impastando la farina con i tuorli d’uovo, lo strutto e lo zucchero e un po’ d’acqua. Ottenuto un impasto omogeneo stenderlo per ricavare dei dischi di circa quindici centimetri di diametro e alcune listarelle di pasta di circa un centimetro che serviranno per rinforzare l’interno dei bordi. Farcire i cestini con la crema di ricotta e infornare per circa quindici minuti a 150°.

Una volta pronte spolverare con un po’ di cannella e scaglie di cioccolato, se di Modica ancora meglio! In abbinamento vi consiglio un buon Marsala secco, vino liquoroso siciliano dalla grande storia.

Buona Pasqua!

Fonte ricetta www.visitvigata.com

 




Nostalgia di Budapest… nostalgia di gulyás, la zuppa ungherese

Si sa, ogni volta che si torna da una vacanza, breve o lunga che sia, ci assale quella malinconia che i viaggiatori come me conoscono bene. Quel pizzico di tristezza che scaturisce dalla nostalgia dei luoghi e dalle esperienze vissute. Nonostante ciò, come ripeto spesso, l’importante è ‘andare’ per conoscere e dilatare il tempo. Oggi va così… già, sono da poco rientrata da Budapest, la ‘Parigi dell’Est’, dal 1873 la capitale dell’Ungheria. Una metropoli conosciuta per le sue fonti termali che il Danubio – ‘il re dei fiumi’ – divide in due: ‘Buda’, la parte più alta e storica; ‘Pest’, la parte più bassa e moderna. Un’elegante capitale europea nata dall’unione di tre città: Buda, Pest e and Óbuda – in cui ha sede il parlamento e la sinagoga più grande d’Europa, e la più antica metropolitana ‘continentale’ (1896).

La cosa più bella di Pest è la vista su Buda’ (proverbio ungherese).

Ebbene, in questa fredda sera di febbraio ho deciso di superare la malinconia post-viaggio preparandomi un piatto che amo molto: il gulyás ungherese tradizionale (gulasch). Una zuppa di antiche origini a base di carne di manzo e verdure che un tempo veniva cucinata all’aperto in grosse pentole poste direttamente sul fuoco. Una scelta quanto mai azzeccata, visto che, negli Stati Uniti e non solo, ogni 4 febbraio si celebra la zuppa con il ‘National soup day’. Qui di seguito riporto la ricetta che mi è stata data dal cuoco dell’Ungarikum Bisztrò, un locale tipico nel centro di Budapest in cui ho avuto il piacere di cenare.

Gulyás ungherese tradizionale

Ingredienti:

  • 400 grammi di manzo a cubetti
  • due pomodori
  • due carote a rondelle
  • un peperone giallo tritato
  • due cipolle tritate
  • 2 patate a dadi
  • mezzo gambo di sedano
  • uno spicchio d’aglio tritato
  • un cucchiaio di paprika dolce
  • due cucchiai di olio extra vergine di oliva
  • due litri d’acqua
  • sale e pepe

Preparazione:

Soffriggere il trito di cipolle, quindi aggiungere la carne rosolandola a fuoco vivo. Unire sale, pepe e semi di cumino macinato, mescolando di continuo. Aggiungere il pomodoro, il peperone, l’aglio e la paprika. Allungare con circa due litri d’acqua, e cuocere a fuoco moderato per circa 90 minuti. Quando la carne è quasi pronta aggiungere le altre verdure e cuocere per altri dieci minuti.

Il Gulyás ungherese tradizionale va servito con dei piccoli gnocchetti di pasta chiamati ‘csipetke’. Si preparano facendo un impasto con un uovo, cento grammi di farina e un pizzico di sale. Cuocerli in acqua bollente per alcuni muniti, scolarli e unirli alla zuppa.

Viszontlátásra (arrivederci) Budapest!

Hungarikum Bisztró – Budapest, Steindl Imre u. 13
www.hungarikumbisztro.hu




Regione che vai, amaretto che trovi.

Quando si parla di amaretti, il mio primo ricordo va alla Gisella, la mia nonna paterna mantovana. Un’ottima cuoca amante della tradizione e delle materie prime di qualità. Da ragazzina passavo molto tempo con lei, la seguivo durante le sue preparazioni e l’ascoltavo incantata nei suoi racconti. I nonni sono figure speciali, che, con parole semplici, sanno trasmettere ai bambini insegnamenti che difficilmente si dimenticano col passare degli anni. Tra i suoi piatti, in particolare, ricordo i tortelli di zucca mantovana. Un impasto delicato con un ripieno dal sapore dolce piccante dato dagli amaretti e dalla mostarda piccante.

Il dolce amarognolo degli amaretti.

Gli amaretti oltre ad essere apprezzati semplicemente così, come buoni biscotti, sono anche utilizzati in molte ricette. Il loro sapore dolce amarognolo è dato dalle mandorle e dalle armelline, il seme presente nel nocciolo delle albicocche, di cui però si deve limitare il consumo, affinché non diventi tossico. In provincia di Asti, nell’azienda “Le dolcezze del Pep“, durante una visita ho seguito con interesse le fasi della loro lavorazione artigianale. Un semplice impasto ottenuto con la giusta proporzione di mandorle, armelline, zucchero e albume d’uovo. In Italia la coltivazione del mandorlo, tranne che per alcune eccezioni nel settentrione, è diffusa soprattutto nelle regioni meridionali, territori in cui questa pianta trova il suo habitat ideale.

Regione che vai, amaretto che trovi.

Il Piemonte è la regione italiana che vanta, relativamente a questa tipicità, più preparazioni artigianali. Sono noti gli amaretti di Mombaruzzo, quelli di Valenza, di Acqui, di Gavi e di Ovada. In Liguria sono conosciuti quelli di Sassello e in Lombardia quelli di Saronno e di Gallarate. Nel Modenese vantano una lunga tradizione quelli di Spilamberto, mentre in Sardegna, grazie alla diffusa coltivazione del mandorlo, sono noti gli  “amarettos de mendula”. Solo per citarne alcuni.

Normativa a tutela della denominazione “Amaretto” e  “Amaretto Morbido”.

A tutela del consumatore il Ministero delle Attività Produttive e delle Politiche Agricole e Forestali ha elaborato una normativa, che qui di seguito riporto, a garanzia della denominazione dell’Amaretto e dell’Amaretto Morbido. Per entrambi in etichetta deve essere indicata la percentuale di mandorle e armelline presenti.

  • La denominazione “Amaretto” è riservata al biscotto di pasticceria a pasta secca avente forma caratteristica tondeggiante, con struttura cristallina e alveolata e superiore screpolata, e gusto tipico di mandorla amara, con eventuale aggiunta di granella di zucchero. Il prodotto presenta una percentuale di umidità inferiore al tre per cento. Gli ingredienti obbligatori sono: zucchero (saccarosio), mandorle di albicocca (armelline), con contenuto di grasso superiore al 45%,mandorle, singolarmente o in combinazione, in quantità tali da garantire non meno del 13% di mandorle complessive, albume d’uovo di gallina.
  •  La denominazione “Amaretto Morbido” è riservata al biscotto di pasticceria a pasta morbida avente forma caratteristica tondeggiante, con superficie superiore screpolata. Il prodotto deve presentare una percentuale di umidità almeno dell’otto per cento. Gli ingredienti obbligatori sono: zucchero (saccarosio), mandorle di albicocca (armelline), con contenuto di grasso superiore al 45%, mandorle, singolarmente o in combinazione, in quantità tali da garantire non meno del 35% di mandorle complessive; albume d’uovo di gallina. (Le percentuali dei due tipi di mandorle vanno indicate separatamente).

Non ci resta che leggere con molta attenzione le etichette, oppure, per chi volesse cimentarsi, preparare con buoni ingredienti degli amaretti casalinghi.

Amaretti fatti in casa

> Dosi :

  • 200 grammi di mandorle dolci
  • 50 grammi di mandorle amare (o armelline)
  • 180 grammi di zucchero
  • 4 albumi d’uovo

> Preparazione :

  • Sgusciare le mandorle e porle in acqua bollente per un paio di minuti.
  • Pelarle, farle tostare in forno caldo per dieci minuti, e, dopo avere unito lo zucchero, pestarle bene in un mortaio.
  • Aggiungere gli albumi e impastare fino ad ottenere un composto omogeneo da cui si ricaveranno piccoli biscotti rotondi.
  • Porli su una teglia da forno imburrata (o carta da forno), e cuocere a 160 gradi per circa 20 minuti.
  • Gli amaretti, una volta raffreddati, vanno conservati in ambiente asciutto.

Le Dolcezze del Pep – Regione Prata, 95 – Incisa Spatacino (AT)

info@ledolcezzedelpep.com




Un tempo la mia finestra si affacciava su una pianta di fichi…

Confettura di fichi senza zucchero.

Un tempo aprendo la mia finestra mi affacciavo su una pianta di fichi: era un albero del mio giardino. A quell’epoca non avevo una predilezione particolare per questo tipo di frutta. Forse perché era li, anno dopo anno, a mia disposizione. Devo ammettere che quella pianta ora mi manca. In realtà mi mancano tutti gli alberi del mio vecchio giardino a cui allora non davo la giusta importanza. Dare per scontato ciò che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, è un errore che si rivela col tempo. Sono lezioni di vita che impariamo con l’esperienza, e che cerchiamo di trasmettere ai nostri figli, anche se, come noi, lo scopriranno col passare degli anni.

Pochi giorni fa, tornando da Treviso, ho portato con me dei fichi colti da un albero in aperta campagna. Belli e maturi al punto giusto, mi hanno convinto a preparare una perfetta confettura di fichi senza alcuna aggiunta di zucchero (100 % frutta non trattata a cui non ho tolto la buccia). Prima di scrivervi come mi hanno insegnato a farla, farò una breve premessa. Anche se il termine ‘marmellata’ a mio parere ‘sa più di casa’, ed è usato per lo più nel linguaggio comune, è giusto precisare che con esso ci si riferisce ad un composto a base di agrumi e zucchero, come da direttiva dell’Unione Europea. Con qualsiasi altro tipo di frutta, si ottiene una preparazione che prende il nome di ‘confettura’.

Confettura di fichi

  • Ho raccolto 3 kg di fichi ben maturi non trattati.
  • Una volta lavati, ho tolto solo le parti meno morbide della buccia.
  • Quindi li ho tagliati in 4/6 pezzi, e li ho posti a cuocere in una pentola a bordi alti con l’aggiunta del succo di due limoni.
  • Per addensare il composto ho unito una mela gialla a pezzetti con la buccia (contiene pectina naturale).

Confettura di fichi

  • Ho fatto cuocere il tutto a fuoco lento per circa 1 ora e mezza.
  • Nel frattempo ho lavato e sterilizzato i vasetti, coperchi compresi, in acqua bollente per 30 minuti.
  • Una volta che la confettura ha raggiunto la giusta consistenza, l’ho versata nei vasetti riempiendoli per 3/4; li ho chiusi bene, e li ho capovolti fino a che si sono raffreddati.
  • Ora sono a riposo, al fresco e al buio. Un assaggio però l’ho già fatto… 😉

Confettura di fichi

 




La mia frittata del… Cactus!

Durante i miei giorni trascorsi sull’isola di Ponza, ho passato parte del mio tempo sul terrazzo della casa in cui ho soggiornato, una tipica abitazione ponzese in un borgo marinaro di pescatori in frazione di ‘Le Forna’. Ho goduto così di un’atmosfera molto particolare: di giorno una ricca e variegata vegetazione mediterranea, e, al calar del sole, della poesia delle luci delle case in lontananza sulla collina… quasi un presepioNopal..

Mentre i miei occhi brillavano per tanta bellezza, ho fatto una piccola ricerca su una pianta rigogliosa che avevo proprio a fianco a me: il cactus. Adoro da sempre i suoi frutti, i fichi d’India, molto meno le sue pale spinose, i cladodi, più noti con il nome di Nopal. Detto ciò, visto che sono curiosa e che amo le sfide, con la dovuta prudenza, ma soprattutto con dei guanti, ne ho tagliata una giovane e… l’ho messa in padella!

Le pale del cactus Opuntia, pianta tipica messicana, sono un alimento molto diffuso nella cucina di questo paese per il buon apporto nutrizionale di calcio, magnesio, ferro, potassio, vitamina A e C. Inoltre è conosciuto per i suoi effetti sazianti, diuretici e ipoglicemici. Una volta tolte le spine, si può assaggiare la sua morbida polpa aggiungendola nelle insalate o come ingrediente per gustose frittate.

Ebbene, fatta questa premessa, visto che amo conoscere e assaggiare tutto ciò che la natura ci offre spontaneamente, mi sono fatta la mia frittata… del cactus! 😉

Nopal

  • Raschiare le spine di due pale, Nopal, con un coltello affilato.Nopal
  • Tagliarle a pezzetti e porle in un tegame ricoperte di poca acqua.
  • Farle cuocere per circa 15 minuti unendo del sale grosso e mezzo succo di limone.
  • Scolare e sciacquare sotto l’acqua fredda per togliere la ‘gelatina’ restante.
  • Nel frattempo imbiondire una cipolla in padella unendo il Nopal a pezzetti, uova sbattute, sale e olio extra vergine di oliva.

Assolutamente da provare!




Lo sapete quando è nato il rock? Ve lo dico mentre preparo la Spongata

 

Sinceramente prima di partecipare alla serata gastronomica-letteraria svoltasi il 4 Dicembre a ‘Il Garibaldi’ di Cantù, non sapevo neanch’io quando fosse nato il rock. La risposta me l’ha data Ezio Guaitamacchi, giornalista e critico musicale, autore e conduttore radio-tv, fondatore dello storico mensile Jam, scrittore del primo rock thriller italiano ‘Psycho Killer’. Il suo ultimo libro, con prefazione di Renzo Arbore, è per l’appunto dedicato alla ‘Storia del rock’.

Ebbene, la nascita dLa storia del rockel rock secondo gli storici risale al 1954 nel sud degli Stati Uniti. Una musica che ha incarnato la ribellione dei giovani dell’epoca e che ha avuto diverse fasi. Quella di Lou Reed, secondo Ezio Guaitamacchi, è stata unica e particolare.

La sua intervista più emozionante quella con Ray Charles, quella che ancora gli manca con Bob Dylan. Durante la cena ispirata alle tradizioni natalizie di Parma, città degli chef del ristorante, tra una portata e l’altra si è ripercorsa la storia del rock con brani interpretati da Ezio e dalla bravissima cantante Brunella Boschetti Ventura.

Musica e sapori di Parma

La cena è iniziata con la classica Culaccia, una specialità esclusiva del Salumificio Rossi di Sanguinaro di Fontanellato. Un salame senza conservanti ne additivi prodotto solo con cosce di suino nazionale. A seguire gli anolini in brodo a cui io ho aggiunto, seguendo gli insegnamenti di mio nonno Giuseppe (mantovano), del Rosso Dai Vecchi Filari delle storiche Cantine Bergamaschi diTradizioni natalizie di Parma Busseto, terra natale di Giuseppe Verdi.

Un vino prodotto con uve tipiche della Bassa Parmense: Fortana, Lambrusco, Barbera e Croatina. Dopo la mariola cotta (salume tradizionale parmense) con purè di patate e verze in agrodolce, la cena si è conclusa con la spongata, un dolce natalizio dalle antiche tradizione povero ma ricco.

E qui mi fermo, anzi, vi do la ricetta che a mia volta mi sono fatta dare.

Natale 2014

  • Pasta frolla

Iniziamo a preparare la pasta frolla impastando 400 gr. di farina, 200 gr. di burro ammorbidito, 1 bicchiere di vino bianco, 180 gr. di zucchero, 2 uova e un pizzico di sale.

Quindi lasciar riposare l’impasto per un’oretta in frigorifero e stenderlo con un mattarello infarinato formando due dischi, uno di base e uno di copertura. Usare una teglia a bordo basso.

  • Ripieno

Scaldare a bagnomaria 400 gr. di miele. Quindi tritare 200 gr. di noci e unire 100 gr. di pane grattugiato tostato, 100 gr. di uvetta, 100 gr. di pinoli, 100 gr. di cedro candito, 10 gr. di cannella e una spolverata di noce moscata.

Mescolare il tutto col miele, versarlo sulla pasta, e infine ricoprire con il secondo disco. Bucherellare la superfice con piccoli fori, e mettere in forno caldo a 200° per circa 35 minuti.

 La spongata




Siete sicuri di sapere tutto sulle mele? Parliamone davanti a una torta.

Oggi voglio parlare delle mele, il mio frutto delicato, quello dello strudel delle mie colazioni trentine, quello che uso per i dolci che mi riportano all’infanzia. Ebbene, credo che le mele siano il frutto più antico. Quante cose si potrebbero scrivere…

Sicuramente quella più famosa è la mela di Adamo ed Eva, il frutto del peccato, senza parlare poi di quella avvelenata di Biancaneve, o di quella usata nel titolo di un film per evocare il tempo dell’innocenza e della giovinezza.

Vi chiedo dunque: “Cosa vi riporta in mente una mela?” Per quanto mi riguarda mi riporta alla famiglia e alle  belle tradizioni di una volta.

Lo sapevate che…

  • Le mele sono una buona fonte di fibre e per questo un ottimo spuntino con poche calorie, facile da portare con Frutteto.se.
  • Sono ricche di sostanze antiossidanti.
  • Per il loro basso contenuto di zucchero sono ideali per i diabetici.
  • Vista l’alta digeribilità possono essere consumate tranquillamente da chi ha problemi digestivi, anche a fine pasto.
  • E’ consigliabile mangiare le mele con la buccia, solo nel caso in cui si abbia la sicurezza che non siano stati effettuati trattamenti con antiparassitari.
  • Ci sono più di mille varietà, per questo è l’albero più diffuso sulla Terra.

Questo è il tempo delle mele, ne vogliamo parlare davanti a una torta? 

La Torta di mele

Ogni famiglia ha una torta di mele con le sue varianti. Io ne faccio una molto semplice che amo mangiare per colazione. Ecco come la preparo.

Una volta che avete sbattuto tre rossi d’uovo con 150 gr. di zucchero, unite i bianchi montati a neve, e amalgamate con:

– 200 gr. di farina

– 1 bustina di lievito

– 80 gr. di burro tolto per tempo dal frigorifero

– una spolverata di cannella

– mezzo succo di limone

– tre mele tagliate a cubetti

Ponete l’impasto nel forno scaldato a 170 gradi, e portate a cottura per circa 40 minuti.

La mela a colazione




A proposito di verdure di stagione, la conoscete la Spingitora?

La Spingitora è un’antica tradizione in uso in Puglia. In pratica durante il pasto, senza doverlo chiedere, viene portato a tavola un piatto misto di verdure di stagione. Verdure fresche non condite che, come dice la parola, ‘spingono’ a mangiare ancora.

La storia sembra far risalire questa consuetudine agli Spagnoli, che, a loro volta, l’hanno ereditata dai paesi Arabi. A parte le origini, amando molto le verdure, io trovo che questa tradizione vada diffusa e condivisa.

La cosa importante, nella scelta delle materie prime, è la stagionalità e la provenienza.  E’ consigliabile quindi fare attenzione negli acquisti, per salvaguardare la nostra salute e per aiutare l’agricoltura italiana.

Ma perché si raccomanda di mangiare più verdure?

Facciamo un breve ripasso.

  • Sono un’ottima fonte di vitamine, sali minerali e antiossidanti.
  • Nei mesi caldi, con la perdita di liquidi, ci aiutano a idratarci.
  • Sono una buona fonte di carotenoidi: pigmenti vegetali con proprietà antiossidanti. Quest’ultimi, neutralizzando i radicali liberi prodotti in eccesso dall’organismo, evitano che queste molecole danneggino le membrane delle cellule sane e il loro DNA.
  • Numerosi studi hanno confermato che un’alimentazione ricca di verdure è indice di buona salute. Nelle popolazioni che ne fanno abbondante consumo l’incidenza di malattie tumorali è nettamente inferiore.
  • Meglio crude o cotte? E’ una questione di gusto. Comunque sia, mangiandole crude si evita di perdere delle vitamine.

Concludo con un ultimo consiglio. Le verdure crude vanno a braccetto volentieri con il Pinzimonio: una miscela ottenuta amalgamando buon olio extravergine di oliva, sale, pepe, buon aceto o eventualmente del limone.

Un piatto fresco e leggero perfetto in ogni stagione, che consiglio ai miei amici ristoratori di portare sempre a tavola!

Calendario delle Verdure

Fonte: ‘Cibi che fanno bene, cibi che fanno male’  – Tom Sanders docente di nutrizione e dietetica King’s College University of London




“Mi faci nu piattu di favi?” Il purè di fave di Franca e Ninì

Nei miei giorni passati a Carovigno ho conosciuto una famiglia titolare di una piccola trattoria sul mare. Anche se qualcuno stenta a crederlo, riesco a non dire una parola se non mi trovo bene in un posto, mentre a differenza, se mi trovo a mio agio, sono un fiume in piena. Ebbene, la prima volta in cui sono andata in questo ristorantino familiare ho conosciuto Ninì, sua moglie Franca, ed Elena, la loro figlia.

Era tardi, nel locale c’era poca gente. Io mangiavo seduta a un tavolo, e Ninì a un altro, a poco distanza. L’ho visto silenzioso e con gli occhi tristi. Forse è per questo che gli ho chiesto che cosa avesse nel piatto. Con lo sguardo perplesso mi ha risposto che purtroppo non poteva più concedersi ciò che voleva a causa di una malattia. Non so bene perché, forse per trasmettergli un po’ del mio entusiasmo per quel momento passato li, ma mi sono spostata e mi sono seduta a mangiare a fianco a lui per chiacchierare. Mi ha raccontato del suo incontro con Domenico Modugno…

Ninì ci ha lasciati Mercoledì 23 Luglio scorso dopo una lunga malattia. Ho promesso a Franca di scrivere di lui e del nostro incontro. In verità lo avevo già fatto, prima ancora di avere la notizia. Questo è il mio modo per ricordarlo.

“Mi faci nu piattu di favi?” E’ così che si chiede a Specchiolla, frazione di Carovigno in provincia di Brindisi, uno dei piatti tipici pugliesi. Come l’ho scoperto? Andando Da Ninì, una piccola trattoria sul mare che ha attirato la mia attenzione per i fiori e le piante poste a bella cornice intorno al locale. Chi ama la natura di per se è già una persona speciale, per me, che amo il verde, la migliore presentazione.

In realtà il nome esatto di questo punto di ristoro è T.A.V. (tiro a volo), essendo oltre che ristorante la sede dell’Associazione tiro al piattello di Specchiolla. Ci sono entrata un giorno dopo che, andando in bicicletta sul lungomare, l’appetito si è fatto sentire. All’interno un ambiente semplice tipico delle trattorie familiari, e sul retro, all’esterno, un portico da cui ho ammirato la bella vista sul mare.

Oltre a familiarizzare con l’ambiente mi piace farlo anche con le persone, è così che ho conosciuto Ninì e sua moglie Franca, i titolari del ristorante. Lei regina della cucina, e lui, insieme alla figlia, addetto alla sala. La prima volta in cui mi sono recata li mi ha raccontato dei suoi trascorsi a Milano, quando lavorava al Piccolo Teatro. Si occupava del trasporto delle scenografie e di quant’altro serviva per l’allestimento delle commedie teatrali.

Un giorno, dovendo consegnare gli abiti di scena alla prima di uno spettacolo nel camerino di Domenico Modugno, decise di inserirgli nella camicia un biglietto con un semplice augurio di buona fortuna. Domenico, nativo di Polignano a  Mare, lo andò a cercare prima di entrare in scena per ringraziarlo, compiaciuto di avere nello staff un collaboratore della sua terra.

E’ così che lo conobbe, ma non solo, la commedia ebbe un tale successo da indurre Domenico Modugno alla consuetudine di fare un saluto a Ninì prima dell’inizio di ogni spettacolo. Belle atmosfere di un tempo passato che ho ascoltato in un caldo pomeriggio d’estate, davanti allo splendido mare di Carovigno e a un piatto di purè di fave.

Fave

  • Mettere a bagno nell’acqua un pugno di fave per persona per un’intera notte.
  • Quindi scolarle e trasferirle in una pentola coprendole d’acqua. In aggiunta unire del sale e una patata a testa tagliata a cubetti.
  • Una volta giunto a bollore, far cuocere per un’oretta a fiamma bassa togliendo la schiuma che man mano si forma.
  • Mescolare di tanto in tanto muovendo la pentola energicamente, senza l’ausilio di cucchiai.
  • Una volta assorbita l’acqua passare il composto nel passatutto unendo in contemporanea dell’olio extra vergine di oliva.

Il purè di fave così ottenuto può essere accompagnato dalla cicoria di campagna, dai peperoncini piccanti, oppure dall’uva bianca. Inoltre è ottimo riscaldato il giorno dopo con della cipolla soffritta.

Un legume tra i più antichi che si può utilizzare fresco o secco. E’ una buona fonte di fosforo, ferro, zinco, magnesio e vitamina E.

Da Ninì

Ristorante da Ninì T.A.V. – Viale delle Tamerici, Specchiolla – Carovigno (BR)




Le frittelle d’Acacia di nonna Vanda

Avete mai fatto le frittelle con i fiori d’Acacia? Questo è il periodo giusto.

Qualche giorno fa li ho raccolti in campagna a Treviso, lontano dallo smog e dal traffico. Mi sono immersa tra il bianco dei grappoli e ne ho aspirato i profumi.

La ricetta di queste frittelle che vi ho scritto qui di seguito, è di una dolce signora di nome Vanda che non dimenticherò mai per il sorriso che mi ha rivolto ogni qual volta che le facevo visita. Da qualche anno ormai ci ha lasciato… ma non nei ricordi.

Fiori d'Acacia

Le frittelle d’Acacia di nonna Vanda

Raccogliete dei grappoli di fiori d’Acacia semi-chiusi in un ambiente non inquinato.

Quindi preparate la pastella con i seguenti ingredienti:

  • 2 uova
  • 5 cucchiai di zucchero
  • 2 bicchieri di acqua frizzante ben ghiacciata
  • 2 cucchiai di olio extra vergine di oliva
  • un pizzico di sale
  • mezza bustina di lievito per dolci
  • mezzo chilo di farina

Amalgamate bene il tutto con una frusta.

Pastella per le frittelle d'Acacia

Una volta ottenuto un composto omogeneo immergete il grappolo d’Acacia (senza lavarlo), e friggete in olio caldo o in strutto di buona qualità.

Frittura d'Acacia

Quindi, dopo aver fatto ben asciugare le frittelle su carta assorbente, spolveratele con zucchero a velo e fiori d’Acacia.

Lo sapevate che questi fiori sono simbolo di speranza d’amore? 😉

foto 1

Seguici

Vuoi avere tutti i post via mail?.

Aggiungi la tua mail: