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La gelatina di fiori di Sambuco

La ricetta : “La gelatina di fiori di Sambuco”

di Fausto Delegà

Raccogliere i fiori di Sambuco è un gesto che da grande gioia e riempie il naso di un profumo intenso ed unico. La magia si compie poi nella possibilità di trasferire profumo e aromi in tutte le preparazioni nelle quali i fiori di Sambuco possono essere usati. Una specie di eternizzazione della primavera che si può far riesplodere ogni mattina a colazione, in ogni pranzo o cena sposando questa gelatina con i formaggi.

Attenzione: la pianta del Sambuco, esclusi i fiori e i frutti, è una pianta tossica.

Anche i frutti sono da evitare crudi, per la loro alta proprietà lassativa che conservano in parte anche da cotti, sotto forma di marmellata, per altro squisita. Scurissima, con colore intensissimo e che marca in modo quasi indelebile ogni cosa che tocca.  Attenzione anche a non confondere il Sambuco normale con l’ebulus, erbaceo dai frutti più grossi, immangiabili e tossici, veri purganti micidiali.

 Chiudo con qualche curiosità…

  • Il nome generico Sambucus potrebbe derivare da uno strumento musicale a fiato, in latino noto come “sambuca”.
  • Dal frutto si ottiene un colorante blu e un inchiostro.
  • Il succo della radice è utilizzato per tingere i capelli neri.

La gelatina di Sambuco

A maturazione completa raccogliere 20 fiori di Sambuco possibilmente in giorni assolati, caldi e asciutti.

Metterli a bagno in un litro d’acqua con il succo di un limone biologico per tre giorni, quindi  filtrare con apposita carta e unire al liquido, filtrato e profumato, un kg di zucchero gelificato per litro. Far bollire a fuoco medio per 8 minuti.

Togliere la schiuma bianca che in genere si forma un po’ in superficie,  e poi invasettare  a caldo.

Tappare subito,  lasciar raffreddare e conservare a temperatura ambiente. Si otterrà una perfetta gelatina che tappata, e sottovuoto, si conserverà anche un anno. Una volta aperta tenere in frigorifero.

sambuco




“Lo Zighinì… e i Prigionieri del Sinai”

La ricetta : “Lo Zighinì”

Oggi ho voluto che una cara amica raccontasse un piatto tipico Eritreo per riportare all’attenzione  la situazione  di un popolo che ormai da anni vive  in una situazione drammatica. Cornelia Isabelle Toelgyes con costanza,  impegno e dedizione attraverso un gruppo chiamato  “Per la liberazione dei Prigionieri nel Sinai” cerca di attirare l’attenzione pubblica su questa tragedia umana. Ce ne sono molte, vicine e lontane… ognuno a modo suo può tendere una mano.

…le persone e i loro racconti di cucina popolare

Lo Zighinì… di Cornelia Isabelle Toelgyes

Lo zighinì piatto tradizionale Eritreo, è uno spezzatino di carne piccante cotta con cipolla ed una miscela di spezie chiamata berberè. Un’amica mi ha dato la ricetta di sua madre che fino alla fine degli anni settanta era quella che veniva utilizzata al mercato di Asmara. Il padre usava berberè a colazione, a pranzo e cena, e chiedeva che questo fosse preparato al massimo una volta ogni quindici giorni. In casa l’odore di berberè era talmente forte che impregnava tutto con relativa disperazione dei ragazzi che non riuscivano a toglierselo di dosso. Lo zighinì si mangia tradizionalmente sulla injera, la focaccia tipica eritrea, in modo che questa si imbeva di sugo.

  • Zighinì  (spezzatino piccante)

Fare appassire in una padella antiaderente coperta 1 grossa cipolla e 2 spicchi d’aglio tritati. Dopo 5 minuti aggiungere 1 cucchiaio di burro chiarificato (realizzato facendo sciogliere del burro fresco in una pentola a bagnomaria su fiamma media e costante), 3 cucchiai di berberé (miscela di piccante),  1 bicchiere d’acqua e sale.

Fare restringere lentamente, poi aggiungere 500 g di pelati e, se c’è bisogno, un altro bicchiere d’acqua. Continuare a sobbollire per 15 minuti. Aggiungere 500 g di manzo e finire di cuocere per 1 ora finché la carne è cotta e il fondo ristretto.

  • Berberè (miscela piccante)

20 peperoncini abissini (ce ne sono di almeno 5 tipi, ma senza grosse differenze, purché siano belli rossi)
1 cucchiaino di semi di coriandolo
10 chiodi di garofano
60 semini di cardamomo (quelli neri per intenderci)
½ cucchiaino di semi di sedano di montagna (ajowan, dal sapore di timo intenso e piccante)
15 bacche di pimento

  • Injera  (focaccia eritrea)

Preparata mescolando in una ciotola:

500 g di farina di frumento
500 g di farina di mais
250 g di semola di grano duro
25 g di lievito (o 100 g di lievito madre)
500 g d’acqua

Coprire e far riposare a temperatura ambiente 2 o 3 giorni, quindi  lavorare l’impasto fermentato con acqua q.b. fino a farlo diventare fluido e omogeneo. Scaldare una padella antiaderente e versate il composto in modo da avere uno strato di 3-4 millimetri, come per una crepe. Quando inizia a rapprendere devono comparire le bollicine che danno la caratteristica consistenza spugnosa al pane. Coprire e lasciare cuocere per circa 3 minuti evitando che prenda colore. Lasciar raffreddare su un canovaccio evitando di sovrapporre le focaccette finché non sono fredde. Servire coperte da qualche cucchiaiata di zighinì.

“I prigionieri del Sinai… la situazione ad oggi”

Nel novembre del 2010 Don M. Zerai è venuto a conoscenza che nel deserto del Sinai si trovavano oltre 250 persone (eritrei, etiopi, somali, sudanesi, nigeriani) in totale stato di schiavitù, in mano a dei trafficanti di esseri umani.

Allora il riscatto che veniva chiesto alle famiglie si aggirava intorno agli 8000 dollari. Per estorcere il denaro, venivano torturati con corrente elettrica ed altro. Mentre erano sotto tortura si chiamavano i congiunti tramite un cellulare per far sentire le urla dei loro cari.

Se non erano in grado di pagare, venivano uccisi direttamente, oppure, nel peggiore dei casi, gli venivano espiantato gli organi che poi venivano immessi nel mercato clandestino internazionale. Le donne venivano violentate e spesso rimanevano incinte dei loro aguzzini.

Oggi la situazione non è cambiata. Anzi, peggiorata. Sappiamo che ora nelle mani dei trafficanti si trovano ancora ca. 2000 persone. Il turn over non cessa per via della grave situazione politica dei paesi del corno d’Africa. Oggi il riscatto arriva fino a 60.000 dollari a persona e sappiamo che ci sono anche alcuni bambini nelle loro mani, non esenti da torture…anzi.

La tragedia non finisce qui. Una volta liberati, spesso vengono arrestati nuovamente dalla polizia egiziana per immigrazione clandestina e deportati nei paesi d’origine, dove li attende il carcere duro. Generalmente non possono sopravvivere più di un anno.

Se per caso riescono raggiungere Israele, pensando di trovare la salvezza, la loro sorte cambia poco. Generalmente i richiedenti asilo politico vengono arrestati. Se così non è, sono lasciati comunque al loro destino e con l’aria razzista che tira in questo periodo in Israele, vi lascio immaginare in che condizioni devono vivere. Vi ricordo che siamo nel 2012. Le Istituzioni Internazionali, i Governi Europei e gli USA sono al corrente di questa tragedia, ma si fa finta di nulla. Forse è così che si vive meglio. Ma non noi…




“I Marubini in brodo della domenica…”

La ricetta : “I Marubini in Brodo”

di Paola Frigeri

…le persone e i loro racconti di cucina popolare

Ricordo la domenica quando lentamente mi svegliavo… sentivo  le campane suonare l’ultimo tocco  per ricordare a tutti che era giunta l’ora di andare a messa.

Mi preparavo trascinandomi in cucina con i capelli ancora arruffati, pronta per fare colazione.  Un po’ di latte con il caffè,  e quel pane biscottato bagnato nella mia scodella bianca che mi riportava alla mente le vie principali di Cremona con le sue pasticcerie… Solo li vendevano quel tipo di “pan biscuttat”. Sotto le mie narici passava quel profumino familiare che mi riconduceva alle origini cremonesi dei miei genitori. La città di Cremona… un affresco di tanti ricordi. I Marubini, memoria di sapori che regnavano sulla mia tavola la domenica.

Ricordo che al sabato la mamma rosolava il magatello insaporito con la salvia e con quella fetta di burro comprata nelle campagne cremonesi.  Prosciutto crudo, salame nostrano senza aglio (a me non piaceva), bologna, e un pezzetto di lesso. Quindi il tutto, unito e macinato, era pronto per il ripieno.

Ogni domenica l’asse di legno era posta sul tavolo…  la pasta tirata ad arte e tagliata a quadretti,  il ripieno perfettamente nel mezzo, e la vista della cosa più bella… il Marubino. Uno perfettamente uguale all’altro, la mamma li voleva così,  tutti  perfetti… come pronti per una festa. Il brodo intanto andava da solo, non aspettava altro che i suoi ospiti cadessero dentro uno alla volta.

E infine un ricordo di lei, mi sembra quasi di vederla… Due bigodini in testa messi quasi per dovere,  e lo sguardo teso con occhi ammirati verso quella tavola piena di Marubini tutti in fila, come piccoli ma grandi soldatini… grandi come la mia mamma.




“Frittata cugli sparni” (Frittata di asparagi selvatici)

La ricetta : “La Frittata di Asparagi Selvatici”

di Romano Pomponi

…le persone e i loro racconti di cucina popolare

Semplice e genuina, con uova di galline allevate a terra nelle aie, cipolla bianca di campagna, asparagi selvatici e pancetta affumicata in casa. Naturalmente olio extra vergine delle colline ciociare

Bene, cominciamo dagli asparagi selvatici…  Essendo la Ciociaria una terra collinare e montuosa, non è difficile trovarli; crescono sia nelle radure, che nei boschi assolati sino a circa 1000 m. L’olio è prodotto quasi esclusivamente sulle colline rocciose, alcalino, con bassa acidità, e quel leggero pizzicorino che scompare con il tempo.

Quasi una frittata di moda…  Io sono nato nel 1958, e pur vivendo in una cittadina turistica come Fiuggi, quasi tutti avevano il maiale allevato in campagna, le galline,  e piccoli orticelli in cui si piantavano ortaggi  di vario genere, adesso si direbbe biologico, ma noi avevamo tutto così già allora, eravamo biologici, e non lo sapevamo!

La frittata era un piatto che si preparava spesso, gustoso ma povero, compariva sulla tavola di tutti, non dico tutti i giorni ma quasi. Dimenticavo, gli asparagi vanno spezzati con le mani finché si sente la parte tenera, la parte legnosa non va utilizzata.  Io faccio soffriggere gli asparagi con la cipolla e il guanciale.  Appena il tutto comincia a rosolare aggiungo le uova, e metto un pizzico di sale per ciascuna.  Andrebbe servita con del pane casareccio cotto nel forno a legna.  Un piatto umile ma sostanzioso…  come la mia amata Ciociaria




“Gli Amaretti della mia bisnonna Maria…”

La ricetta : “Gli Amaretti Abruzzesi”

di Claudia Marcucci

…le persone e i loro racconti di cucina popolare

Era la vigilia di Natale del  1998, e come tutti gli anni quella sera i miei genitori con i miei nonni andavano alla Santa messa nella chiesa di San Rocco ad Atessa. Io come al solito rimanevo con i miei bisnonni Maria e Nicola.

Come tutti i bambini attendevo impaziente  la mezzanotte per l’arrivo di Babbo Natale. Nell’attesa aiutavo la mia bisnonna Maria nella preparazione di un dolcetto che di tradizione nella nostra famiglia veniva preparato la notte della vigilia.  L’avremmo poi  mangiato durante l’apertura dei regali accompagnandolo per noi bimbi ad un buon bicchiere di latte, e per i più grandi ad un buon bicchiere di vino.

La nonna iniziò a tirare fuori dal frigorifero  il preparato fatto con le mandorle, lo zucchero ben amalgamato con le chiare del uovo,  tenuto poi a riposare per tre ore. Con l’impasto la nonna mi diceva di fare delle palline di media dimensione, che successivamente lei posava su una teglia imburrata infornandole a 150° per 30 minuti.

Mentre gli amaretti cuocendosi  nel fornetto sprigionavano un profumo intenso che ci inebriava,  la nonna mi raccontava che preparare questa ricetta era essenziale per lei, perché la riportava alla sua giovinezza.  Quando le chiesi con stupore il perché di questa tradizione, lei con le lacrime agli occhi guardando il mio bisnonno mi  rispose :

E’ diventata una tradizione perché la vigilia di Natale del 1944 mentre facevo questo dolce per tua nonna Etta, sentii bussare al portone di casa e andai ad aprire…  In quel momento dopo un anno e mezzo ho potuto riabbracciare l’uomo della mia vita che era partito per la guerra ed era tornato a casa sano e salvo dalla sua famiglia. E’ stata l’emozione più bella della mia vita… E’ lì nella mia mente, come una foto ricordo.  Ogni volta che sento l’odore di questo dolce,  la memoria mi riporta a quell’emozione…”

Questo è l’ultimo ricordo che ho della mia bisnonna che ci ha lasciato per sempre pochi mesi dopo…

 

Gli Amaretti della mia bisnonna Maria        

Ingredienti:

● 1 kg di mandorle dolci sbucciate e tritate finemente

● 1 kg di zucchero,

● 10 chiare di uova montate a neve

Preparazione:

Unire le mandorle con lo zucchero  amalgamando bene il tutto con le chiare.

Lasciare riposare per tre ore

Spolverizzare la spianatoia di farina e zucchero in quantità uguale  appoggiando l’impasto

Formare gli amaretti disponendoli su una teglia imburrata  ed infornare a 150° per una trentina di minuti circa

Abbinare vini passiti di grandi profumi  come l’Erbaluce di Caluso Passito, Loazzolo Passito piemontese, il Vino Santo trentino, il Vin Santo toscano, il Passito di Pantelleria o delle Lipari.

 

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