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Critica enogastronomica in discussione? Facciamo chiarezza con Elio Ghisalberti.

Oggi vi parlerò di una tavola di incontro e di confronto, in cui oltre a celebrare il gusto, si dialoga su questioni legate al cibo e al vino, e ai suoi protagonisti. Una tavola che spesso condivido con Elio Ghisalberti, amico e giornalista enogastronomico, ormai abituato – o forse rassegnato – all’ascolto delle mie battaglie del momento. Più che battaglie, sono cause che difendo, spinta dalla passione e da vero credo per ciò che di volta in volta sostengo. Nell’ultimo nostro incontro, si è discusso sulle questioni sollevate nella puntata di Report del 27 marzo 2017: “Sotto le stelle”. Un’inchiesta di Bernardo Iovene che, per i non addetti ai lavori, ha come si suol dire… sparato nel mucchio.

L’enogastronomia, un settore che vede l’Italia al centro del mondo grazie alle capacità e al carisma di professionisti e produttori. Direi che qualche merito (e anche di più) vada loro attribuito. Con questo non voglio dire che tutto vada bene, anzi, sul fatto che qualcosa debba essere aggiustata nulla da eccepire. La cosa che mi preme, più che le polemiche, è la chiarezza e la voglia di ascoltare una voce esperta fuori dal coro di tanti, che un po’ di confusione la fanno davvero. Per chi non lo conosce, Elio Ghisalberti ha iniziato il percorso nel mondo del giornalismo enogastronomico nei primi anni ottanta alla scuola di Luigi Veronelli, per poi collaborare con il Gambero Rosso (mensile e guide dei ristoranti e dei vini) e con L’Espresso per la Guida ai Ristoranti d’Italia. E’ ideatore e curatore di GourMarte, la Fiera delle produzioni enogastronomiche di qualità esclusivamente made in Italy interpretate dai migliori cuochi. Attualmente firma per L’Eco di Bergamo la pagina settimanale “Sapori e Piaceri”.

  • Elio, oggi allarghiamo la nostra tavola a chi ha voglia di approfondire le criticità emerse nella puntata di Report di cui abbiamo recentemente parlato. Nel dirti “ti lascio la parola” già mi fischiano le orecchie. Una volta tanto dirai… A parte le battute, partiamo da ciò che ho più a cuore: le produzioni italiane di qualità. La visibilità dei nostri chef può molto in questo senso. Intendo nella scelta di materie prime italiane e nella menzione delle stesse sulle carte dei loro ristoranti. Primo impegno di questi professionisti è quello di essere custodi del made in Italy, grazie alla ricchezza di prodotti, di vitigni e di cultivar di olivo del nostro paese. A quanto pare non è sempre così. Qual è la tua opinione in merito?

Chiariamo prima di tutto un punto, visto che giustamente sottolinei l’importanza dell’italianità in cucina, chiamiamoli cuochi e non chef. Altraelio-ghisalberti cosa, non li definirei custodi ma interpreti, perché questo è il ruolo più attinente che, in questo concordo, rappresenta la figura professionale. Detto questo ritengo che il primo impegno professionale del cuoco è quello di fare una cucina buona e sana, di essere serio, preparato, onesto, pulito. Se questi principi sono applicati nel valorizzare le materie prime e la cultura gastronomica italiana e del territorio in cui si opera tanto meglio, merita un plauso, non possiamo che gioirne. Occhio però a non esagerare con i peana a chi sceglie questa via ed al contrario con la mortificazione di chi segue un’altra filosofia. La tendenza ad esaltare la cucina del territorio porta con sé alcune conseguenze, prima fra tutte quella della mistificazione. Quanti cuochi cavalcano questo tema solo perché fa presa sull’informazione e sul pubblico? Chi negli acquisiti e nella pratica quotidiana di cucina, ha sempre privilegiato i fornitori seri della porta accanto non sente il bisogno di sbandierarlo ai quattro venti, lo fa punto e basta. Se poi certi prodotti arrivano anche da molto lontano qual è il problema? L’importante è la coerenza, sempre. Hai mai fatto caso all’acqua minerale che viene servita al tavolo di un ristorante che so, di Torino, il cui cuoco dichiara di acquistare personalmente i conigli a Carmagnola? Magari arriva dall’Alto Adige o dalle valli bergamasche: è coerente tutto ciò?

  • “Una stella Michelin cambia la vita a un ristorante e allo chef, ma anche le forchette del Gambero Rosso e i cappelli dell’Espresso possono fare la fortuna di un cuoco.” In Italia ci sono 334 ristoranti stellati con un giro d’affari che fa girare la testa. A questo proposito mi riallaccio alla trasmissione che, durante le interviste, ha messo in discussione la credibilità di guide e di critici enogastronomici da anni non più in incognito. Giudizi attendibili o sponsorizzati? Come dico spesso la differenza la fanno le persone. Il tempo insegna a seguire quelle giuste. Lascio a te continuare…

Qui mi spiazzi, hai già centrato la questione. Il mezzo può essere più o meno valido, ma è l’autista che lo rende sicuro. Anche quando gli editori erano più ricchi e magnanimi (cioè pagavano i collaboratori a sufficienza per metterli nelle condizioni di lavorare serenamente) vi era chi approfittava del ruolo per trarne vantaggio personale. È stato per così dire fisiologico che, chiusi i rubinetti, la corte dei personaggi dediti al mercimonio si allargasse. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: la credibilità delle guide (di quelle cartacee intendo) è ridotta ai minimi termini. Ma del resto, non se la passa certo meglio il mondo web che per sua natura è fuori controllo e quindi ancora meno affidabile. La credibilità è nelle serietà e nella correttezza dei singoli, e l’incognito non c’entra proprio nulla, credimi. Chi non ci mette la faccia crea un’illusione, non guadagna rispetto.  

  • Lo chef, una professione che alimenta i sogni dei giovani studenti per poi spegnerli quando lo stagista, entrando nel mondo del lavoro, è spesso costretto ad affrontare doppi turni. C’è poi chi, grazie alla bravura e alla fortuna, riesce a lavorare in un ristorante stellato guadagnando uno stipendio non adeguato ma giustificato dalla visibilità che ne deriva. Una media di quindici ore al giorno che contrasta con le quaranta settimanali previste dal contratto nazionale di lavoro. Una realtà che trova impreparate le giovani nuove leve. Fortunatamente non sempre è così. Da qualche anno insegni presso una scuola professionale alberghiera. Puoi espormi la tua esperienza nell’affrontare queste problematiche con i tuoi studenti?

elio-ghisalberti-2L’obiettivo primario di una scuola professionale è, o meglio dovrebbe essere, quello di preparare gli studenti al lavoro. Dove insegno, a me sembra che i colleghi che si occupano delle materie tecnico-professionali mettano da subito con i ragazzi le cose bene in chiaro riguardo ai sacrifici che comporta il mestiere che hanno scelto di imparare. E’ pur vero tuttavia che in buon numero gli studenti iniziano il percorso totalmente privi di questa consapevolezza, ammaliati più dal fenomeno mediatico dei cuochi star che da una reale passione per la ristorazione. Durante il percorso formativo, grazie anche agli stages che vengono regolarmente organizzati, di pari passo alla crescita della consapevolezza avviene spontaneamente, fisiologicamente, la selezione. In questo senso potersi confrontare con il mondo del lavoro sin da giovanissimi aiuta, e molto, tant’è che chi sceglie le nuove formule scolastiche a diposizione, tipo l’alternanza scuola-lavoro, dimostra non solo di avere più chance di concludere gli studi, ma di sviluppare più in fretta le proprie attitudini. Se poi la domanda contiene implicitamente una critica al trattamento riservato dai ristoratori agli stagisti ed ai giovani cuochi in genere, beh, qui torniamo alla considerazione fatta sopra a proposito della credibilità della figura del critico enogastronomico: questione di persone, non certo del movimento della ristorazione nel suo insieme. Attenzione però a dimenticare un fatto oggettivo: in cucina il lavoro è per sua natura complesso e pesante, e più in generale il mestiere nel mondo della ristorazione ha peculiarità specifiche tali da non consentire una vita sociale per così dire omologata. 

  • Di guide, di riviste e di manifestazioni ne hai seguite e ne segui ancora tante. Cosa pensi si possa fare per migliorare la comunicazione in questo settore, soprattutto dopo l’ondata social che ha travolto, anche se per alcuni stravolto, il modo di rapportarsi con la ristorazione?

Fondamentalmente credo che sarebbe utile una selezione feroce, un ritorno ai valori della conoscenza, della competenza, e perché no anche delle buone maniere e del buon senso. No ho alcuna speranza che ciò avvenga. 

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Ringraziando Elio riprendo la parola.

In conclusione cosa resta da dire… Forse solo che – nonostante io ami il giornalismo d’inchiesta – fare del sensazionalismo senza approfondire a dovere i temi trattati serva solo a creare confusione tra i consumatori.




Le mie esplorazioni a GourmArte 2014

Si è appena conclusa con successo la terza edizione di GourmArte, l’appuntamento enogastronomico di tre giorni che si svolge annualmente presso la Fiera di Bergamo. Un format organizzato da Ente Fiera Promoberg dedicato alle cento eccellenze della Lombardia, ideato e guidato da Elio Ghisalberti, giornalista ed esperto del settore. Come nelle precedenti edizioni, nell’area riservata alle produzioni ci si è potuti dedicare agli assaggi e alla conoscenza dei produttori, mentre nello spazio dedicato alla ristorazione, si è potuto degustare una selezione di piatti di noti cuochi e ristoratori lombardi.

Un’edizione speciale che è coincisa con l’assegnazione del Premio Luigi Veronelli a dieci anni della scomparsa del giornalista enogastronomico. Unica categoria ‘La Terra’. Premiato Giorgio Grai, enologo trentino dalla lunga esperienza, Nataša Černic, giovane vignaiola di una terra difficile come quella del Carso, e infine Marisa Cuomo, che, con il marito Andrea Ferraioli, si è distinta per aver saputo strappare lembi di terra da dedicare alla coltivazione della vite in Costiera Amalfitana. Fatta questa premessa, vi racconterò di alcune produzioni tra le tante esposte che hanno attirato la mia attenzione. Succede quando, nei racconti delle persone, emerge l’attenzione all’ambiente, alla qualità e all’originalità delle produzioni.

Sempre un piacere incontrare gli amici della Cantina di Quistello.  Il loro Lambrusco Grappello Ruberti mi riporta alle mie origini mantovane, e a un territorio esteso lungo le rive del fiume Secchia dalle antiche tradizioni viticole.

Cantina di Quistello

Una gradita sorpresa l’incontro con Marco Chiesa, mia gentile guida al piacevole assaggio dei vini dell’Azienda Agricola San Michele di Capriano del Colle, in provincia di Brescia. In particolare ho apprezzato l’intensità e il corpo del ‘1884 Rosso Riserva’ : Marzemino 40%, Sangiovese 40%, Merlot 15% e Barbera 5%. Un ottimo rapporto qualità-prezzo.

Azienda Agricola San Michele

Lo conoscete il Blu di Bufala? E’ un formaggio ‘di carattere’ tra i miei preferiti che deve il suo nome alle muffe blu-verdi utilizzate per fare il Gorgonzola. Paolo Leone, il mio esperto di formaggi, lo descrive come saporito e persistente. Questo è quello del Caseificio Quattro Portoni di Cologno al Serio, in provincia di Bergamo.

Caseificio Quattro Portoni

Passeggiando tra gli stand non ho potuto evitare di fermarmi davanti a quello di Bonucci Tartufi di Romano di Lombardia (BG). Irresistibile il profumo. Ho conosciuto così Gloria Bonucci, terza generazione di tartufai, che con l’aiuto della sua cagnolina continua la tradizione familiare. Racconta questa sua passione sul suo blog Passione Sottobosco. Da seguire! 😉

Gloria Bonucci

Gloria Bonucci

Regione ospite di questa edizione di GourmArte la Sardegna. Testimone l’Azienda Agricola Fratelli Pinna di Ittiri, in provincia di Sassari. Una realtà familiare di 170 ettari destinati alla coltivazione di ulivi ultracentenari di ‘Bosana’, una cultivar diffusa nel nord dell’isola. Un olio extra vergine di oliva che ho apprezzato per i profumi intensi e i sapori decisi. L’oliva in bocca…

Azienda Agricola Fratelli Pinna

Immancabile un saluto agli amici dell’Azienda Agricola Salera. Questa volta ho trovato molto interessante il loro riso soffiato allo zafferano e agli spinaci preparato dallo chef Antonio Cuomo. Una valida alternativa da proporre per gli aperitivi.

Azienda Agricola Salera

L’agricoltura si può aiutare in molti modi. Il Caffè Milano di Treviglio lo ha fatto recuperando un’antica coltivazione di meloni di Calvenzano e producendo con esso un liquore. Lo si beve in piccoli bicchieri di cioccolato e lo si abbina alla Turta de Treì, un dolce che negli anni ’90 ha vinto il concorso dell’Associazione Botteghe Città di Treviglio. Due creazioni di loro produzione.

Caffè Milano

Vi piace il Melograno? A me si, lo metto persino nell’insalata. Pensate che a Milano da una pianta di melograno cresciuto su un terrazzo, una famiglia iniziando a produrre un liquore per amici, ha dato vita a una vera produzione. Si chiama Melogranello®.  A volte bisogna saper osare!

Melogranello®

Di produzioni da raccontare ce ne sarebbero molte altre. Qualcuna però voglio andare a conoscerla direttamente sul campo, come piace a me. Detto questo, ora concluderò questo mio racconto mostrandovi qualche piatto che ho avuto il piacere di assaggiare.  🙂




Il Gatto e la Volpe in un Cantuccio

Il gatto e la volpe direte !? In un Cantuccio poi !? Ma chi saranno mai ?

Ora vi spiego… Mi sto riferendo ad uno cuoco birichino, Mauro Elli Chef e Patron del Ristorante Il Cantuccio che, in accordo con Rocco Lettieri, ha organizzato una cena con tranello, o meglio, una cena didattica. Posso dirvi solo che, ridendo sotto i baffi che tra l’altro non hanno, i due bontemponi ce l’hanno proprio tirata…

“Il vino ha la straordinaria proprietà di poter cambiare intensità, profumi, aromi nell’arco di una serata solo modificandone la temperatura.” Mauro Elli

Ieri sera ho partecipato ad una cena didattica in compagnia di Elio Ghisalberti, Rocco Lettieri, Albero Schieppati, Roberta Schira, Giacomo Mojoli e naturalmente Mauro Elli. Tutti esperti comunicatori di enogastronomia, loro almeno, io più che esperta assaggio e ascolto, quando riesco a stare zitta ovviamente.

Rocco Lettieri ha introdotto la serata spiegandoci che avremmo degustato al buio cinque vini rossi toscani, in cinque calici con forme differenti, a temperature diverse, ovviamente abbinati ai piatti della cucina di Mauro. Noi avremmo dovuto indovinare il vino, l’annata e l’abbinamento migliore, scrivendo delle note di degustazione ad ogni portata.

Una cosa che proprio detesto fare, è parlare o scrivere di vino in modo tecnico. Mi annoia proprio, ovviamente con tutto il rispetto per chi lo fa. Il vino per me è ben altro, è storia , è territorio, è filosofia di vita. Ricordo che, poco tempo fa, assaggiando un vino di Giorgio Grai, lui stesso mi ha chiesto di raccontarglielo. La mia risposta è stata: “Io il vino lo bevo, lascio agli esperti il compito di raccontarlo”. Per intenderci, per esperti mi riferisco a chi lo produce; mi piace ascoltare da loro come nasce un vino.

Ho fatto questa premessa per farvi capire quanto poco entusiasmo avevo all’inizio della cena. Quando poi Rocco ha raccomandato a tutti di prestare attenzione e di parlare poco mi son detta: “Uh signur, che serata che mi aspetta!” Invece no! Devo confessarvi che mi sono proprio divertita! Perché…? Un po’ per il folclore che faccio al mio solito provocando forse un pochino, ma solo per conoscere meglio le persone, e poi, perché Mauro portava i vini ad una temperatura ingannevole, diciamo così.  Io con le mani li scaldavo, perché il vino rosso, quello buono, ad una temperatura troppo bassa, proprio non mi piace!

Ma il trucco era proprio qui, far assaggiare “lo stesso vino” a temperature completamente diverse. Cambia, e come se cambia, così tanto da sembrare un vino diverso. Chi ha vinto? Nessuno e tutti, anzi, ha vinto il vino! Un fantastico rosso toscano, l’Ardito di Riccardo Baracchi, annata 2006, uvaggio 50% cabernet sauvignon e 50 % syrah.

E’ stata una serata didattica molto istruttiva… ma anche molto appetitosa!

Un grazie particolare al gatto e alla volpe!

 




Vino cotto, mosto cotto o… tutti e due?

La ricetta: “Caldidolci al Vin Cot di Quistello”

Vino cotto o mosto cotto? Direi tutti e due, ma siamo sicuri di conoscere la differenza? Per fare un po’ di chiarezza mi  farò aiutare dai produttori.

Recentemente, dopo aver conosciuto meglio entrambi i prodotti, mi sono resa conto che non tutti ne conoscono le differenze. Ambedue ottime produzioni, diverse però sia per densità che per gli usi a cui sono destinate.

Partiamo innanzitutto dal presupposto che ilvino cotto del Picenoè un vero e proprio vino. E’ ottenuto dalla bollitura del mosto dei vitigni di Verdicchio, Trebbiano, Montepulciano e Sangiovese, e viene invecchiato in botti di legno di rovere. E’ un vino da dessert, utilizzato anche nella preparazione di dolci e per insaporire le carni. Oltretutto è un ottimo rimedio per curare tosse e raffreddore, e per chi come me, ama la medicina naturale, questo è già un ottimo motivo per parlarne.

Me lo ha fatto conoscere Emanuela Tiberi dell’Azienda Agricola David Tiberi di Loro Piceno, con la quale, durante una serata del girotondo enogastronomico “Per Tutti i Gusti” coordinato da Carlo Vischi, ho avuto modo di chiacchierare.

Passo ora al “vino cotto mantovano” che, nel termine dialettale, viene chiamato “vin cot”. L’ho conosciuto grazie alla cara Paola della Cantina Quistello di Mantova, prima su Twitter, e poi di persona a GourMarte, la manifestazione enogastronomica coordinata da Elio Ghisalberti.

La Cantina sociale di Quistello è una cooperativa costituita nel 1928 da un gruppo di viticoltori la cui produzione si estende lungo le rive del fiume Secchia. Un territorio ricco di antiche tradizioni viticole e gastronomiche che ben conosco e apprezzo per le mie origini paterne mantovane.

Dunque, qui ad aiutarmi a far chiarezza è il loro Presidente, che mi definisce il loro vino cotto non un vino, ma un mosto cotto; è usato come condimento per piatti di carne, per insalate, e anche per dolci.

Come stabilito da disciplinare di produzione del vin cot, la materia prima utilizzata è il mosto d’uva Lambrusco Grappello Ruberti, vitigno storico coltivato nella zona di produzione dell’IGP Quistello. E’ un prodotto con molta concentrazione di zuccheri d’uva e senza alcol.

In conclusione, tornando alla questione che ho posto inizialmente su: “vino cotto o mosto cotto?” direi proprio tutti e due. Utilizzerò il “Vin Cot di Quistello” nella preparazione di un dolce da loro stessi consigliato, e il “Vino Cotto del Piceno” come vino da dessert per accompagnarlo. 😉

“Caldidolci al Vin Cot di Quistello”

  • Ingredienti:

Un litro di latte, 3 bicchieri di farina di mais sottile, un pizzico di sale, zucchero qb, un pezzetto di burro, una manciata di uva passa, pinoli qb, un goccio di Vin Cot di Quistello.

  • Preparazione:

Preparare una polentina portando a ebollizione il latte mentre si aggiunge a pioggia la farina di mais e un pizzico di sale. Rimestare bene, fino a quando la farina sarà cotta. Aggiungete sempre mescolando, lo zucchero, un pezzetto di burro, un goccio di VinCot e per ultimi l’uva passa e i pinoli.

Con la polentina ottenuta formare tanti biscottini ovali e lasciarli riposare per qualche ora. Passateli poi al forno, facendo attenzione a non seccarli.

I “Caldidolci” come dice la parola stessa, vanno serviti caldi.

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